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«Le vittime sulla scena pubblica. Il caso di Casale Monferrato»

“Vergogna, vergogna”… il grido riecheggia nell’atrio e nello scalone del palazzo municipale di Casale Monferrato,in una notte fredda e triste per questa città simbolo delle morti per amianto. “Siamo indignati” ripeteva Nicola Pondrano, ex operaio all’Eternit, oggi segretario della Camera del Lavoro, uno degli animatori dell’Associazione Familiari Vittime dell’Amianto: “indignati perché il sindaco accetta di lasciare da sola una comunità, la sua gente,per un piatto di lenticchie; isolando le migliaia di cittadini che hanno avuto almeno un morto in famiglia …, rompendo così la solidarietà che anno dopo anno, direi funerale dopo funerale, si è costruita intorno alle vittime di questa fibra che continua a seminare morti, ancora oggi”. Questa è sola una delle molte notizie apparse in questi ultimi giorni sulla stampa nazionale e locale che danno conto di un conflitto aspro che sta lacerando un’intera comunità. Scelgo di partire dalla fine (provvisoria) di una storia che ha segnato da più di trenta anni una comunità intera. Una storia che racconta un’esperienza pressoché unica nel panorama italiano (ed anche internazionale) di attivismo e resistenza, da parte di un gruppo di ex lavoratori, familiari o semplici cittadini per chiedere “giustizia e verità” per i danni conseguenti all’esposizione a fibre di amianto utilizzate dalla Eternit. Scelgo di farlo adottando il punto di vista delle “vittime” riconoscendole come attori che tali si definiscono: “essere vittima non è una condizione naturale, non inerisce immediatamente a qualsiasi sofferenza, ma è uno status ascritto o assunto, che comporta una certa percezione di sé e una certa interpretazione dell’azione vittimizzante” (Pitch, 1989, pag. 51). Definirsi vittime implica la capacità di costruire il comportamento altrui come criminale, così che è spesso la stessa definizione ad essere spesso oggetto di negoziazioni e conflitti. Il presente contributo si colloca in quella tradizione di studi (in Italia tra gli altri i lavori di Cottino, 2005; Vidoni 2000; 2004) che ha messo in discussione le definizioni scontate di ciò che è “crimine”, le rappresentazioni semplicistiche del problema affidate alla “magia” delle statistiche ufficiali, e all’apparente naturalità della qualifica di vittima, un attributo che è in realtà frutto di processi di costruzione sociale. È con riferimento in particolare a quest’ultimi che la vicenda in esame aiuta a chiarire come il riconoscimento della valenza criminale di comportamenti altrui, passi anche attraverso la costruzione sociale della propria identità di “vittima”, riconoscimento che è favorito da esperienze di agire collettivo. Il contesto in cui nasce l’esperienza di partecipazione attiva dei famigliari e degli ex lavoratori Eternit di Casale, è definito dalla presenza di un’attiva Camera del Lavoro, che nel processo contro i dirigenti italiani della società, promuove la costituzione di un’associazione dei famigliari degli ex lavoratori deceduti (AFLED), per gestirne la costituzione come parte civile. Siamo nel 1988. La nascita dell’associazione è pertanto funzionale alle esigenze di organizzazione e mobilitazione, in cui il rapporto con la giustizia penale è centrale. La vicinanza con ex dirigenti sindacali aiuta le persone ad apprendere le tecniche e abilità utili all’azione. Agendo si riconoscono e socializzano le motivazioni a partecipare, ad esserci: così si decide di dare alla morte di un famigliare valore simbolico (“decidemmo di dare alla morte di Piercarlo un valore simbolico, che rappresentasse il dramma che colpisce la città di Casale per colpa dell’Eternit”). Si confronta la propria esperienza con altri che hanno avuto esperienze analoghe, incanalando la reazione verso un’azione collettiva, finalizzata all’affermazione di principi generali, che superano la propria esperienza di dolore. Anche quest’associazione è caratterizzata da una doppia identità (Turnaturi, 1991) quella dei gruppi primari e quella dei gruppi secondari. Dei primi riproduce la solidarietà, l’esperienza concreta, la messa in comune delle emozioni. Dai gruppi secondari mutua la spinta verso l’esterno, la capacità di farsi riconoscere come attore legittimato a intervenire nel discorso pubblico, formulando richieste specifiche e indicando soluzioni. Nella trasformazione del proprio privato (l’esperienza dolorosa) in un’esperienza pubblica di partecipazione, nel riconoscimento dell’ingiustizia e nella richiesta di “verità” si acquisisce un nuovo vocabolario, si producono nuovi saperi e si forgiano nuove abilità. Il percorso di conoscenza è fatto di incontri, di vicende concrete, di condivisione di esperienze e di solidarietà, un“apprendimento morale” fatto di scoperte e richieste di affermazione dei propri diritti, un attivismo dal quale non si vorrà più prescindere (“ogni volta che mi sarà richiesto, sono disposta a portare la mia testimonianza”). Il dovere della memoria e la lotta contro la rimozione collettiva rappresentano un’esigenza imprescindibile e una costante nel discorso pubblico prodotto dall’associazione. I famigliari riferiscono di tentativi di dissuasione portati avanti da altri cittadini nei loro confronti (“basta con questo amianto, è ora di finirla”). Il ricordo non è più solo un fatto privato, legato alla memoria dei propri cari, ma diviene un dovere civile per sanare un’ingiustizia che non è stata episodica (il richiamo alle proporzioni della tragedia è presente in molti dei resoconti raccolti), ed è dunque giusto chiedere riparazione, opponendosi con forza e volontà a chi vuole dimenticare, giustificare, reinterpretare o negare quanto avvenuto. Questa ridefinizione della realtà, questa nuova “costruzione sociale” si accompagna a una ridefinizione di sé, della propria identità individuale e sociale. È nell’agire che prendono forma anche le motivazioni a farlo, plasmando valori e credenze. L’associarsi con altri può essere anche letto come una moderna forma di elaborazione del lutto: il gruppo ripara ciò che il singolo da solo non può fare; e (re)agisce in modo più efficace ai tentativi di rimozione e oscuramento (Turnaturi, 1991). La ricerca di responsabilità, di riparazione, le azioni concrete conducono alla formazione di un soggetto che è collettivo, e che come tale è visibile nell’arena pubblica. Un gruppo di pressione, che avanza richieste specifiche: di una nuova legislazione che tuteli i cittadini che si sono nel frattempo ammalati; di un nuovo processo penale che renda giustizia per tutte le morti successive al processo del 1993. Il ruolo dell’associazione è cresciuto negli anni, così come le competenze dei suoi membri e si è arrivati a saldare gli interessi degli ex lavoratori e dei familiari con quelli della comunità tutta. Un ruolo rilevante in questo - lo dico con amarezza- è legato alla dimensione della strage: i morti sono stati circa 1.800 e negli ultimi anni l’incidenza è in crescita, con cinquanta nuovi casi di mesotelioma ogni anno, che riguardano chi, negli anni del boom della lavorazione del cemento amianto, era bambino e la cui unica colpa è stata quella di essere nato in questa sfortunata città e di aver giocato nei cortili pavimentati con amianto, su quelle “montagne di polvere che sembrava borotalco”. La capacità dell’associazione di fare rete è stata determinante per legittimarsi come interlocutore delle istituzioni locali, ma anche della magistratura. Il riconoscimento più alto del ruolo svolto dall’associazione è ravvisabile in un passaggio della requisitoria del pubblico ministero nel processo attualmente in corso a Torino, quando il PM ha affermato: “Il primo processo inizia grazie ai sindacati locali, ma ancor più grazie alla gente di Casale, uomini e donne colpiti dal disastro che continua a consumarsi nella loro città, si raccolgono in comitati e associazioni e chiedono giustizia; a dire il vero, agli uomini e alle donne di Casale va anche il merito dei successivi processi, questo compreso”. Molto recentemente, siamo alla fine del 2011 e ad appena due mesi dalla sentenza di primo grado, che chiuderà il più grande processo mai aperto in Europa contro le multinazionali dell’amianto, (in cui la pubblica accusa ha chiesto la condanna a vent’anni per gli imputati), il “patto sociale, il comune sentire tra vittime e scampati uniti nel chiedere giustizia”, è stato messo sotto scacco dalla decisione del Sindaco di accettare l’offerta di risarcimento di uno dei due imputati. Un’offerta definita efficacemente come “l’offerta del diavolo”, perché la contropartita richiesta è il ritiro della costituzione come parte civile nel processo in corso e in futuri processi. La posta in gioco è elevata, la frattura del patto di solidarietà che si è andato saldando in questi anni è un rischio concreto a cui l’associazione guarda con preoccupazione. Questa crisi rappresenta una sfida per l’associazione che ha dimostrato di saper (re)agire e riscattare la condizione passiva spesso legata al ruolo della vittima, costruendo un modo e un mondo diverso e alternativo, fatto di condivisione di dolore, ma anche di apprendimento, di crescita. Nell’associazione si è appreso a “esserci” in modo diverso e a non lasciarsi schiacciare dal peso delle perdita, ma anche a non lasciarsi umiliare dal silenzio degli altri. Prendo a prestito le parole di Etty Hillesum (2008): “ Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose”.

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Veronica Spinoglio

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