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Fernanda la “pasionaria” nel mirino della lobby della “polvere assassina”

Cambiano i tempi e i luoghi ma l’industria dell’amianto perpetua gli antichi e collaudati metodi: lobbismo e minacce, solitamente economiche, per impedire che la verità emerga, e che si sappia ciò che tutto il mondo dovrebbe avere ben chiaro: che l’amianto uccide, che non ci sono soglie di sicurezza e non esistono metodi di lavorazione sicuri, in grado, cioè, di evitare che chi ci mette le mani finisca per ammalarsi della patologia più temuta, il tumore della pleura, per il quale purtroppo oggi non esistono cure risolutive. Se in Italia e in altri Paesi infatti i signori dell’amianto sono ormai costretti a giocare in difesa, grazie alla cessazione della produzione, alle proteste della gente, al lavoro degli epidemiologi e dei medici che hanno messo nero su bianco le nefaste conseguenze del business dell’amianto, in altre realtà le condizioni di arretratezza consentono loro di alzare la voce, di intentare cause per ottenere risarcimenti minori, cercando di tacitare le voci di chi si spende per evitare che in futuro, quando sarà troppo tardi, migliaia di persone perdano la vita per causa degli affari cinici portati a termine da industriali senza scrupoli. Lo ha fatto in passato minacciando di risarcimenti miliardari Irving Selikoff, il medico americano che a metà anni Sessanta ha denunciato i danni causati dall’amianto alla salute. Lo sa bene Bernardino Zanella, frate operaio a metà anni Settanta svolgeva attività sindacale all’Eternit di Casale nell’intento di tutelare la salute degli operai, a cui i Carabinieri un giorno dissero di «non fare tanta polvere sull’amianto». Ma Bernardino era intelligente e determinato e così finì... in una missione in America Latina. Lo ricorda bene l’ex sindaco di Casale Riccardo Coppo, all’inizio degli anni Ottanta avvicinato da un altissimo dirigente dell’Eternit che gli disse di stare attento a dire che l’amianto faceva male perché avrebbe potuto trovarsi a pagarne le conseguenze. La “pasionaria” nel mirino Oggi nel mirino c’è Fernanda Giannasi, la pasionaria brasiliana della lotta alla fibra killer che deve affrontare in questi mesi ben tre processi. Fernanda è ben nota a Casale. Da vent’anni è in collegamento - ormai - con il movimento di lotta guidato da Romana Blasotti, Bruno Pesce e Nicola Pondrano. È stata più volte a Casale, intervistata dal nostro giornale già negli anni Novanta, era a Torino nei momenti cruciali del processo di primo grado e ha gioito per la sentenza di condanna si Stephan Schmidheiny e Louis De Cartier; ha seguito via internet la notte buia in cui il Consiglio comunale di Casale aveva dato il via libera alla transazione con lo svizzero, nel dicembre 2011. E nei giorni scorsi era a Ginevra per chiedere, insieme agli altri esponenti della associazioni delle vittime dell’amianto di moltissimi Paesi di tutto il mondo, che il crisotilo fosse inserito dall’Onu nella Convenzione di Rotterdam che mira di “commercio responsabile” - e quindi una adeguata informazione - per le sostanze nocive. In Brasile la lotta è difficile, perché la produzione di cemento-amianto è ancora attiva in 22 Stati su 27. Due processi riguardano un presunto danno economico, il mancato guadagno che, in qualità di ispettrice del ministero avrebbe causato agli industriali perché in alcuni Stati, per merito del movimento da lei guidato l’utilizzo della fibra killer è stato vietato. Un altro processo è invece di natura amministrativa ed è stato intentato dall’Istituto brasiliano crisotilo che mira a far licenziare la Giannasi dal ministero perché - sostengono - farebbe esclusivamente attività di organizzazione della lotta all’amianto e non svolgerebbe i suoi compiti di ispettore del lavoro. «Dopo 30 anni di attività? E il bello è che sono gli stessi - racconta Fernanda - che anni fa avevano intentato una causa alla Giustizia Federale accusandomi di abuso di potere con l’obiettivo di rimuovervi dal settore cemento-amianto dove ero troppo attiva! Visto che hanno perso cambiano tesi e dicono che non faccio nulla...». Ma in totale Fernanda - che è una spina nel fianco dell’industria dell’amianto - ha affrontato una decina di processi. Accanimento abbastanza facile da spiegare se si tiene conto che il Brasile è il secondo più grande esportatore di amianto al mondo (produzione di 302.000 tonnellate anno, dati 2011) ed esporta il 55% di crisotilo al mondo in Paesi come Indonesia, Thailandia, Colombia, Messico... Ma molto viene ancora consumato negli Stati dello stesso Brasile in cui non è stato vietato. La lotta e l’epidemiologia Lotta resa più difficile - evidenzia Fernanda - per il fatto che mancano dati sull’incidenza delle malattie; non c’è mai stata una seria e organica ricerca epidemiologica come è avvenuto negli ultimi decenni in Italia, indagine medico-statistica che è fondamentale per documentare gli effetti dell’amianto sulla salute in modo da non offrire scappatoie a chi vuole fare affari con l’amianto e ai tanti tecnici e scienziati prezzolati che si prestano a sostenere tesi palesemente false dietro lauti compensi. “Giustizia contaminata”... In Brasile l’industria - dice Fernanda - non è neppure obbligata a denunciare le malattie professionali e la giustizia è “contaminata” dall’amianto... Storie già sentite, fin nei dettagli anche al processo di Torino: cambiano i nomi di persone e luoghi ma l’amianto è sempre lì, materiale povero e spietato che consente lauti guadagni a pochissimi, e fa strage di moltitudini. Tra i processi subiti dalla Giannasi in passato anche una vertenza per avere «leso l’immagine dell’industria dell’amianto definendola “mafiosa”, in un Paese in cui - racconta la Giannasi - un ex ministro del lavoro ha creato un sindacato compiacente, amico di uno dei gruppi più importanti del settore, ministro che oggi fa il legale di fiducia di grandi gruppi industriali...».

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