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Il mesotelioma in Italia non è più un tumore raro

Il mesotelioma in Italia non è più classificabile come tumore raro. Lo mette in evidenza Luciano Mutti, presidente del GIME, Gruppo ricerca sul mesotelioma che fa capo alla Fondazione Buzzi, in passato in servizio all'ospedale Santo Spirito e attualmente primario a Borgosesia e Vercelli. Mutti – che in questi giorni è in Inghilterra per motivi di studio e ricerca - evidenzia che la soglia definita per tale classificazione – un caso ogni 100mila abitanti – è stata ormai ampiamente e drammaticamente superata, in quanto il mesotelioma si presenta - secondo i più recenti dati statistici - con 3,4 casi per gli uomini e 1,1 per le donne. Il rischio di una diagnosi di mesotelioma nell'arco della vita (0-74 anni) è del 2.2‰ per gli uomini (un caso ogni 459) e dello 0.6‰ per le donne (un caso ogni 1587). Si tratta di dati statistici generali, che presentano una forte variabilità geografica, perché a Casale, Monfalcone, Livorno, La Spezia e Taranto e Genova si raggiungono percentuali anche 10-20 volte superiori ai dati più bassi. Una riflessione che rimanda indirettamente alla recente dichiarazione di Silvio Garattini, fondatore e direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri", che in una recente conferenza stampa svoltasi ad Alessandria aveva affermato che «non c'è molta ricerca da parte delle multinazionali dei farmaci perché il mesotelioma è un tumore raro che appartiene al passato, destinato a scomparire quasi naturalmente». La classificazione come tumore raro alla base del disinteresse dell'industria farmaceutica è una vecchia spina nel fianco per chi vive una realtà come quella casalese e delle altre zone interessate dall'inquinamento da amianto, e guarda alla ricerca come la sola ancora di salvezza a fronte del rischio amianto, in attesa che la bonifica capillare del territorio azzeri per le generazioni future l'esposizione alla fibra killer. Ma la bonifica quanto tempo richiederà ancora? Le proiezioni degli epidemiologi prevedono tra l'altro una crescita progressiva di tale patologia in tutta Europa che arriverà al picco intorno al 2020 e che si prevede ucciderà circa 200.000 persone. «A fronte di ciò – commenta Mutti – Garattini afferma che è inutile investire nella ricerca? Non capisco su cosa si basi, visto che ci sono tutte queste evidenze di tipo epidemiologico e un fattore umano che non può essere trascurato per le persone che si ammaleranno di qui al 2020. L'evidenza e la gravità del problema sono sotto gli occhi di tutti». «Ma non è tutto perché – evidenzia ancora Mutti – gli epidemiologi stanno valutando gli effetti di potenziamento dell'asbesto sul rischio di contrarre il tumore del polmone. Finora tale rischio era stato valutato solo per i fumatori ma pare che l'amianto induca il tumore del polmone a prescindere dal fumo. Un caso su dieci potrebbe essere legato all'amianto, il che significa che su trentamila tumori al polmone diagnosticati in Italia ogni tremila sarebbero legati all'asbesto».

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