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«Familiari fuori dal processo!» Lo chiedono, in appello, i difensori di De Cartier. I Legali di Schmidheiny: «Non è punibile, non sarebbe rieducativo!»

Terza udienza dedicata mercoledì all’esame degli appelli delle difese degli imputati Stephan Schmidheiny e Louis de Cartier de la Marchienne, condannati in primo grado a sedici anni di carcere per la strage Eternit. Conclusa in pochi minuti la disamina delle richieste avanzate dai difensori dell’imputato belga Louis de Cartier (l’illustrazione era già iniziata lunedì) relativamente agli aspetti penali, secondo i quali il disastro nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni private era ricompreso dalle violazioni delle normative antinfortunistiche e quindi non costituiva un reato a sé stante e che il disastro nelle aree pubbliche non sarebbe reato in quanto all’epoca la cessione dei materiali contenenti amianto era legittima, il giudice Elisabetta Barbero è passata ad esaminare le posizioni espresse dalla difesa di Stephan Schmidheiny. In sostanza sono state riproposte tutte le eccezione e le ragioni di nullità già avanzate in primo grado. Prima le questioni di legittimità costituzionale come la presenza parti civili nel processo penale, una “complicazione” che ostacolerebbe la “ragionevole durata del procedimento” perché l’accertamento responsabilità civile è soggetta a principi del tutto diversi. Anche se a dire il Processo Eternit di primo grado è stato straordinariamente rapido considerata la complessità della vicenda. E poi il lungo intervallo di tempo intercorso fra i fatti e l’inizio del processo, decine di anni che non consentirebbero la efficace raccolta di prove a discolpa; situazione che si traduce in una lesione del diritto di difesa. E poi la pena, che dopo tanto tempo non sarebbe riabilitativa come previsto dalla Costituzione. Altra eccezione riguarda l’irregolarità presunta degli avvisi di conclusione delle indagini preliminari, il fatto di non avere depositato i “dati grezzi“ su cui si sono basate le perizie epidemiologiche; la mancata traduzione di documenti in lingua straniera, in particolare in tedesco, lingua madre dell’imputato ma dei suoi difensori che devono poter accedere agli atti processuali. Poi la difesa ha sostenuto nuovamente l’incompetenza del tribunale di Torino sia dal punto di vista territoriale (il processo andava e andrebbe istruito da capo a Casale,oppure a Reggio Emilia, perché lì si sono registrate le prime malattie e morti) e anche un problema di giurisdizione in quanto non sarebbe la Corte di Appello ma la Corte di Assise a doversene occupare, con la presenza quindi dei giudici popolari. Questioni che sarebbero – in alcuni casi – ragione di nullità del procedimento di primo grado, secondo i difensori dello svizzero. Gli avvocati difensori di Schmidheiny sono poi tornati a chiedere di poter controesaminare tutte le parti offese “sia costituite che non costituite” e “tutte le parti civili”. Esame ritenuto necessario non solo per quantificare la richiesta di danni ma - soprattutto - per stabilire correlazione fra l’esposizione e le conseguenti malattie e morti. La difesa del magnate svizzero è poi tornata a minimizzare la sua responsabilità per quanto riguarda la gestione diretta degli stabilimenti e la sua possibilità di incidere sulla spesa, elementi fondanti per l’attribuzione della responsabilità. Come in primo grado l’appello presentato dalle difese tende al contrario a sottolineare gli investimenti e gli sforzi dello svizzero per migliorare le condizioni di lavoro e in tal senso interpreta anche le direttive impartite a Neuss nel 1976. E anche il documento dell’AUSL 76 - secondo la difesa - non sarebbe la dimostrazione che Schmidheiny era consapevole della nocività dell’amianto e mirava a minimizzare e nasconderne il pericolo ma - al contrario - che era davvero convinto che si poteva lavorare in sicurezza. Schmidheniny nella ricostruzione della difesa non sarebbe dunque il responsabile, capo massimo della multinazionale, ma capro espiatorio di responsabilità altrui, coloro che di fatto dirigevano gli stabilimenti. E questa è la strategia di difesa classica utilizzata nei processi precedenti, compreso quello di Casale, dove però non erano stati prodotti dall’accusa documenti scottanti come quelli derivanti dal “sequestro Bellodi”, il consulente di Milano che faceva – secondo la procura e la sentenza di primo grado – una vera e propria opera di spionaggio con “antenne” in tutte le città sede di attività Eternit (a Casale la commercialista Cristina Bruno, radiata proprio nei giorni scorsi dall’ordine dei giornalisti) e che descrivevano loro stessi l’esigenza di tenere fuori il “capo massimo” dalle notizie, dai processi e dai… risarcimenti di danni! Poi la contestazione delle malattie asbesto-correlate come “infortunio” e la contestazione del dolo in quanto - ritiene la difesa dello svizzero - non sarebbe dimostrabile la consapevolezza di “tenere comportamenti causalmente orientati alla provocazione del disastro”, mentre le azioni di Schmidheniny, “lungi dall’essere orientate a causazione del disastro sono opposte nella convinzione di lavorare amianto in modo tale da non provocare la dispersione di fibre all’esterno del luogo di lavoro”. Certo che resta un mistero – annotiamo ricordando le deposizioni e le testimonianze dei lavoratori e degli abitanti del Ronzone – il fatto che lo stabilimento di Casale fosse dotato di aspiratori (i cosiddetti “ventoloni”) che estraevano l’aria dall’interno e la buttavano fuori , insieme alla polvere, senza che vi fosse alcun filtro. In sostanza la difesa chiede dunque (come nell’arringa finale del processo di primo grado) l’assoluzione per sts oppure in subordine la prescrizione, ritenendo non sussistente la permanenza del reato ma solo gli effetti della condotta, conclusasi nel 1986 con la chiusura degli stabilimenti e il fallimento. Infine la difesa lamenta che la pena comminata – 16 anni di carcere – sia eccessiva in considerazione del fatto che lo svizzero avrebbe agito per migliorare le condizioni di lavoro e limitare il rischio e in quanto non sarebbero state valutate, a giudizio della difesa, le attenuanti che ne deriverebbero e le transazione intervenute con molte parti offese. La relazione del magistrato si è poi soffermata sulle osservazioni di tipo civilistico avanzata dalle difese che si concretizzano fondamentalmente nella contestazione del diritto di molte parti civili come i Comuni limitrofi a Casale, ma nache l’INAL e l’INPS, a insinuarsi nel processo, o nella mancanza di una quantitificazione provata del danno e quindi del risarcimento (sarebbe il comune di Casale). Persino le associazioni dei familiari e Legambiente non avrebbero titolo secondo la difesa di De Cartier in quanto costituitesi inseguito (difficile davvero creare associazioni finalizzate ad affrontare una problematica così drammatica che non ha nulla di naturale ma è causa diretta di attività antropica e industriale). E anche per il danno da metus, il timore di ammalarsi a causa dell’amianto, non andrebbe riconosciuto perché non adeguatamente comprovato, come se fossero dunque fole e la strage Eternit, i quasi 60 casi l’anno di mesotelioma che si verificano a Casale , non fosse una realtà drammatica e spaventosa e in grado di incidere pesantemente sulla qualità della vita. Contestate persino le perizie sugli stabilimenti in quanto sono state utilizzate quelle prodotte per altri procedimenti giudiziaria. A corollario la curiosa richiesta di produrne di nuove. Adesso che gli stabilmenti sono stati dismessi da decenni o che sono stati addirittura demoliti? O ancora nella contestazione di fondo che non possono essere addossate agli imputati le spese per le bonifiche delle coperture prodotte e vendute in modo perfettamente legale, visto che l’amianto fu messo al bando solamente nel 1992. La validità giuridica delle richieste avanzate dai difensori di Schidheiny e de Cartier dovrà valutarla il tribunale. Certo che non una parola è stata spesa sul fatto che da metà anni Cinquanta si sapeva che l’amianto faceva venire il cancro al polmone; che da metà anni Sessanta era tutto chiaro anche rispetto al mesotelioma e alle esposizioni passive e ambientali; che Eternit secondo i documenti prodotti dall’accusa avrebbe fatto lobby fino all’ultimo per “difendere” l’amianto rifiutandosi anche solo di etichettare i prodotti come pericolosi. E che ancora nel 1984-85 i maggiori dirigenti della multinazionale sostenevano in conferenza stampa a Casale che la micidiale crocidolite non era pericolosa! Ma davvero in quella data i vertici di Eternit – dopo che per decenni sugli stabilimenti erano comparsi annunci di lavoratori morti di malattie causate dall’amianto, a fronte delle indagini epidemiologiche e delle denunce pubbliche dåei medici - erano convinti (e in buona fede!) che l’amianto non facesse nulla? Nella foto il magistrato Elisabetta Barbero

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