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La vicenda della coppia di Roncaglia

Diagnosi genetica su embrioni: il Tribunale Vercelli condanna Regione Piemonte e ASL

L'ente sta valutando il reclamo

Il Tribunale di Vercelli condanna tanto Regione Piemonte e Azienda sanitaria di Alessandria a garantire la diagnosi genetica preimpianto alla coppia Barrot-Di Martino di Roncaglia di Casale Monferrato, entrambi portatori del gene del rene policistico. Nonostante il dramma di questa coppia, che ha già perso per questa patologia dopo un mese in terapia intensiva la piccola Stella, perdura però il rifiuto della Regione, che sta valutando il reclamo.

Fa sapere l’avvocato Alexander Schuster: «L’ASL Alessandria si era rifiutata a inizio anno di dare l’autorizzazione alla coppia di chiedere la prestazione di diagnosi genetica preimpianto al Centro di procreazione medicalmente assistita di Arco, uno dei pochi centri pubblici attrezzati per tali indagini in Italia. L’ASL aveva resistito avanti al giudice e anzi chiamato “a rinforzo” la Regione Piemonte, la quale, pur a fronte della drammatica storia della coppia già colpita dal dolorosissimo lutto della prima figlia, aveva rivendicato una “spiccata discrezionalità” in merito».

Con decisione del 15 ottobre, resa pubblica oggi, il Tribunale di Vercelli (giudice Baici), in accoglimento totale delle tesi dello studio legale Schuster di Trento, ha condannato l’Amministrazione a garantire la diagnosi o in via diretta (cioè in Piemonte) o in via indiretta in mobilità interregionale. Per la giudice è fuori discussione che la diagnosi, in situazioni patologiche quali quelle della coppia, è un diritto fondamentale a tutela della salute, come già stabilito dalla Corte europea per i diritti umani e dalla stessa Corte costituzionale nel 2015: «Se la Corte è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità sopra indicata per violazione del fondamentale diritto alla salute ex art. 32 Cost., oltre che ex art. 3 Cost., espressamente riconoscendo che la discrezione del legislatore ordinario ha travalicato i propri limiti, non si vede come si possa concludere che per contro sussisterebbe legittima discrezionalità dell’Amministrazione regionale piemontese a non garantire quel medesimo diritto fondamentale ad una procreazione cosciente e responsabile e della salute della donna, che ci concretizza nell’accesso alla prestazione di diagnosi genetica preimpianto (PGD/PMA). E la richiesta di un’assistenza obbligatoria altro non è che il diretto corollario di quanto statuito dalla giurisprudenza costituzionale sulla prevalenza del diritto assoluto alla salute».

Cindy Barrot è ormai attiva per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema “tabù” della diagnosi preimpianto con l’associazione La mano di Stella e sull’assurdità del contesto italiano: «Come si possono sostenere interamente i costi dell’interruzione di gravidanza e della terapia intensiva, ma non garantire le tecniche che consentono di prevenire la sofferenza alla donna e, semmai, a chi nascerà, condannato a malattia o morte certa?».

In Italia, pare solo Toscana e Provincia autonoma di Trento garantiscano queste prestazioni nel regime pubblico. Il problema è quindi nazionale. Per l’avvocato Schuster «è la prima decisione in Piemonte e la seconda dopo un precedente lombardo. Abbiamo altre coppie che si sono rivolte a noi e a breve procederemo a ulteriori cause. In molte necessitano di tali screening genetici e regioni (e Governo) rimangono sordi alle loro richieste».

Tuttavia, il Tribunale ha compensato le spese legali. L’Amministrazione di fatto così riesce con successo a negare il diritto alla salute. Osserva l’avvocato Schuster che «pur avendo vinto, la coppia di fatto subisce una beffa. Dovrà sostenere costi equivalenti a quella prestazione che potevano ottenere privatamente subito, senza attendere i mesi di una causa».

Per Cindy Barrot, «questa decisione del giudice è incomprensibile. Viviamo con lo stipendio di operaio di mio marito e per questo non potevamo rivolgerci a cliniche private. È stato riconosciuto il torto della Regione. Eppure, adesso dobbiamo tirare fuori quegli stessi soldi, perché abbiamo “osato” chiedere giustizia, soldi che non avevamo e che non abbiamo. Adesso capisco perché l’Amministrazione dice sempre comunque di no: il banco vince sempre. Un problema diffuso nei tribunali italiani, che mina le fondamenta stesse dello Stato di diritto: la giustizia rimane un diritto dei ricchi».


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