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Quando Eternit bandì la parola amianto. Dal 1976 dispose che si parlasse esclusivamente di «fibrocemento», ma usò l'asbesto fino all'ultimo

Tra il 1976 e 1978 - in soli due anni - l’ispettorato del lavoro stese 13 verbali sullo stabilimento dell’Eternit del Ronzone, con ben 230 prescrizioni. Una frequenza così ravvicinata di sopralluoghi e prescrizioni utile a comprendere quanto la situazione fosse drammatica. È uno dei passaggi della lunga relazione di Emanuele Lauria, laureato in chimica industriale, ex ispettore del lavoro, poi passato in forza ad ARPA Piemonte (dove fu responsabile del settore amianto), chiamato a deporre ieri al processo Eternit di Torino dal procuratore della Repubblica Raffaele Guariniello. Disposizioni largamente disattese da Eternit che però nel 1977 - ha ricordato sempre lo stesso Lauria (che ha fornito anche parecchia documentazione) con una nota interna mise letteralmente al bando la parola «amianto». Solo la parola, naturalmente, perché l’asbesto, compreso quello blu (il più micidiale), come noto si continuò a lavorarlo fino all’ultimo. Ma «amianto» non si poté più né dirlo né scriverlo... Via dai depliant, via dalle comunicazioni, via da tutte le definizioni utilizzate per indicare i prodotti, che da un giorno all’altro si trasformarono da «cemento -amianto» a «fibrocemento». Una scelta in linea con quella metodica, continua, pervasiva mistificazione che fu probabilmente l’unica e reale politica per la «sicurezza», perlomeno a Casale. 1976: rischio per gli abitanti Nell’ottobre del 1976 l’Ispettorato del lavoro - ha reso ancora noto Lauria - fece anche una segnalazione all’ufficiale sanitario di Casale in cui si parla del «rischio della dispersione estesa della polvere che è pregiudizio per la salute degli abitanti della zona». Altro fatto che Lauria considera estremamente significativo in quanto - ha spiegato - l’Ispettorato interviene normalmente per rischi interni agli ambienti di lavoro; per fare questa segnalazione relativa alle condizioni ambientali esterne alla fabbrica - dunque - «la situazione doveva essere veramente drammatica». Una ricostruzione che Lauria ha svolto sulla base di documenti, di report del SIL, il Servizio di igiene del lavoro interno istituito da Eternit, che costituiva l’interlocutore dei lavoratori e aveva anche la funzione - molto probabilmente - di intercettare e gestire il dissenso e le proteste dei lavoratori, limitando in questo modo il rischio che si orientassero verso interlocutori esterne. Lauria ha ricordato come il discorso sul rischio non sia astratto e potenziale ma concreto e storico, come dimostrano le moltissime vittime mietute dall’amianto dell’Eternit (o fibrocemento, per rispettare il linguaggio imposto dall’azienda con l’avvento degli svizzeri, dopo il 1976) tra i lavoratori e i cittadini, in parte presenti come parti civili nel processo di Torino che vede imputati lo svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de la Marchienne accusati dalla Procura di Torino per disastro doloso permanente e inosservanza delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro. Importante - sottolineano Bruno Pesce, coordinatore del Comitato Vertenza Amianto e Nicola Pondrano, Cgil - il dato relativo al SIL e agli investimenti sulla sicurezza: «In certe posizioni di lavoro non sono mai state fatte misurazioni sulla presenza di fibre di amianto. Secondo noi è stata demolita la credibilità del SIL, così come il discorso relativo ai costi per la sicurezza: 370mila lire annue a testa, vale a dire investimenti minimi e che non riguardavano mai le tematiche più preoccupanti». Gli scarti e i rifiuti Da Lauria anche la sottolineatura del rischio legato alla gestione dei rifiuti e degli scarichi liquidi e aeriformi, un «uso improprio» degli scarti che ha determinato la diffusione della fibra nell’ambiente E nell’elencare gli innumerevoli prodotti in «fibrocemento»... (d’amianto!) - tubi lastre, tessuti, carte e cartoni, nastri - oltreché del mulino Hazemag Lauria ha sottolineato come nel periodo Svizzero, con il recupero degli scarti, che giungevano fin dalla Sicilia per essere frantumati e reimmessi nel ciclo di lavorazione, il micidiale amianto blu finì fatalmente nell’impasto destinato anche alle coperture e a tanti altri prodotti. C’erano anche lastre che venivano verniciate o smaltate (alla toscana, alla francese o alla romana) e che rischiano pertanto di essere più insidiose di altri prodotti in quanto... «camuffate». L’amianto «sfuso» Nel 1978 in Italia si calcolava che i lavoratori esposti all’amianto fossero 12.350, di cui 9000 nel settore cemento amianto e a Casale, dove si consumavano mediamente 600 quintali di amianto al giorno per la produzione l’asbesto arrivava ancora «sfuso» nel 1980. Tra i reparti più pericolosi (sempre ammesso che con livelli di inquinamento e diffusione delle fibre così elevati abbia senso fare distinzioni) il reparto si testavano i tubi per l’acquedotto, il Petralit dove si faceva la finitura e il magazzino oltre in canale, verso il fiume, dove venivano fatti pezzi speciali a mano. E poi il trasporto da piazza d’Armi dove c’era lo scalo ferroviario allo stabilimento del Ronzone e la ex Piemontese dove avveniva la frantumazione per il successivo trasporto dei materiali recuperati al mulino Hazemag, E al tribunale, che lo invitava ad attenersi al resoconto dei fatti e a dati analitici contestando che il perito indugiasse in valutazioni non tecniche, Lauria ha ricordato che di «misurazioni quando i bambini giocavano nel polverino nessuno ne ha fatte...». È la drammatica esperienza di una intera comunità (un’altra tragica «tecnica» di misurazione degli effetti più che del rischio potenziale) che insegna - al di là di ogni dubbio - cosa possa significare tutto ciò...

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Roberto De Alessi

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