Ricerca: sette progetti per provare a curare e prevenire il mesotelioma
di Massimiliano Francia
Sono sette gli studi e i progetti per la cura del mesotelioma pleurico su cui punta attualmente la Fondazione Buzzi, progetti che vanno dalla chemioprevenzione - vale a dire l’impiego di farmaci che puntano a prevenire il tumore indotto dall’amianto - alla ricerca di cellule staminali nel mesotelioma, alla produzione di un vaccino contro il mesotelioma, e – ancora - alla somministrazione di farmaci che stimolano il sistema immunitario aumentando le difese naturali dell’organismo; o ancora lo studio delle caratteristiche specifiche del mesotelioma e della sua resistenza ai chemioterapici, allo scopo di trovare un modo per rendere - per così dire - «sensibili» le cellule del tumore ai farmaci in grado di ucciderle.
E poi ancora ricerche per individuare marcatori, in pratica segnali di allarme che possano far capire in modo precoce o precocissimo - prima che la malattia si manifesti - quali sono i soggetti predisposti a sviluppare questo tipo di cancro.
L’obiettivo è trovare - in tempi non troppo lunghi - una o più cure che consentano di modificare la diagnosi attuale di chi si ammala a causa dell’amianto. Una ricerca di valore inestimabile per una popolazione, come quella casalese, complessivamente esposta (fatta eccezione per i più giovani) al rischio amianto.
Vediamo con la dottoressa Carmen Belli (nella foto) del San Raffaele di Milano, attiva nel GIMe, il Gruppo Italiano Mesotelioma presieduto dal dottor Luciano Mutti, quali sono questi progetti; alcuni sono già stati oggetto di precedenti servizi sul nostro giornale, altri costituiscono invece una assoluta novità.
Stop ai radicali liberi
Uno studio interessante – il Progetto P20 - è condotto dal dottor Stefano Bonassi dell’Istituto Tumori di Genova e ha lo scopo di valutare l’effetto di una sostanza, la N-Aceticisteina che potrebbe essere utile nella prevenzione del tumore.
«La fibra di asbesto induce il rilascio di radicali liberi dell’ossigeno che agiscono sul materiale genetico causando una alterazione dei geni che regolano la proliferazione delle cellule e della angiogenesi della cellula tumorale», spiega la dottoressa Belli.
La acetilcisteina è una «sostanza antiossidante che blocca i radicali liberi dell’ossigeno» e che potrebbe pertanto prevenire il danno che essi causano, interrompendo il processo di mutazione genetica che porta alla formazione del tumore.
L’efficacia della Acetilcisteina può essere valutata attraverso l’espressione della idrossiguanosina, proteina che è ritenuta un marker del danno da asbesto e che dovrebbe – se lo studio dà i risultati auspicati - essere presente in misura più contenuta - quindi - nei soggetti cui viene somministrata la Acetilcisteina.
«La valutazione viene effettuata sia in soggetti esposti sia in soggetti sani, in modo da poter comparare i dati».
I marcatori e il rischio
Naturalmente affinché la chemioprevenzione sia efficace occorre essere in grado di individuare i soggetti a rischio e qui interviene lo studio condotto dal dottor Alfonso Cristaudo direttore della Medicina preventiva del lavoro (Dipartimento di Endocrinologia, Ortopedia e Medicina del Lavoro) dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa, che sta svolgendo ricerche su alcuni marcatori (mesotelina e osteopontina nel siero e nel liquido pleurico) che potrebbero essere utilizzati come marcatori biologici, come ha spiegato lo stesso Cristaudo sul nostro giornale lo scorso 23 ottobre.
Immunizzare dal cancro
Nell’ambito delle prevenzione si muove anche lo studio di Michele Maio, direttore della Immunoterapia Oncologica del policlinico Santa Maria alle Scotte, che da maggio di quest’anno sta conducendo un trial per sperimentare un nuovo farmaco.
L’obiettivo è la prevenzione di alcuni tipi di tumore per soggetti che possono avere una predisposizione per tali patologie, o per pazienti trattati chirurgicamente, allo scopo di prevenire la ripresa di malattia.
La strategia su cui punta il trial è il potenziamento del sistema immunitario attraverso un «anticorpo monoclonale che si sta già sperimentando con risultati promettenti in altri tumori dell’uomo», aveva spiegato lo stesso Maio al nostro giornale lo scorso maggio, quando la sperimentazione era stata avviata.
E perché non un vaccino?
Ancora più a monte si pone lo studio di Antonio Siccardi, 65 anni, originario di Asti, docente di Biologia genetica alla Facoltà di medicina dell’Università di Milano, svolge le sue ricerche presso San Raffaele di Milano che mira alla realizzazione di un vaccino per il mesotelioma.
Anche questo studio era stato illustrato su queste colonne lo scorso ottobre, ma ora ci sono novità.
La ricerca ha infatti dato risultati sorprendenti, anche se la sua reale applicabilità non appare al momento vicina.
Il vaccino sperimentato sui topi ha infatti portato alla dissoluzione del tumore. E questo è l’aspetto positivo.
Meno incoraggiante il fatto che la sopravvivenza delle cavie non abbia avuto un incremento significativo.
«Quando si inietta un virus ricombinante si ottiene il potenziamento del sistema immunitario, cosa che è stata raggiunta – nelle cavie da laboratorio - con la survivina», spiega Carmen Belli.
E prelevando il tumore dei topi è stato riscontrato «che la massa tumorale era diventata necrotica. Ma la mancanza di un incremento della sopravvivenza ha portato a formulare alcune ipotesi, prima di tutto il fatto che vi siano fenomeni di autoimmunità, cioè che la risposta immunitaria abbia coinvolto anche i tessuti sani. Stiamo facendo autopsie agli animali per escludere che questo problema si sia davvero presentato. Crediamo comunque che tutto dipenda dalle grosse dimensioni che i tumori avevano raggiunto».
Argomento che sarà oggetto di un prossimo incontro del comitato scientifico della Fondazione Buzzi.
Mesotelioma e staminali
Sul fronte della biogenetica invece una strada promettente potrebbe essere quella messa a fuoco dal progetto condotto dal professor Giorgio Corte e che viene svolto presso l’Istituto Tumori di Genova.
Anche in questo caso sono state inoculate nei topi cellule di mesotelioma.
«Nel peritoneo delle cavie si sono formati tumori che esprimevano sia antigeni espressi da mesotelioma sia di staminalità, vale a dire cellule che proliferano di continuo ma non si differenziano», spiega ancora Carmen Belli.
Il tumore, in pratica. L’obiettivo della ricerca è proprio quello di studiare questi antigeni e realizzare un farmaco che ne blocchi lo sviluppo, evitando la proliferazione incontrollata delle cellule staminali.
Una cura dal tè verde?
Altra novità interessante è lo studio su una proteina propria delle cellule «stressate» che viene condotto all’istituto San Raffaele di Milano.
L’osservazione di base da cui è partita la ricerca è che il mesotelioma, come altri tumori, ha un metabolismo lento e che le sue cellule - proprio grazie a ciò - sono chemioresistenti, insensibili cioè ai farmaci.
Nel mesotelioma. come in altre neoplasie, la massa tumorale ha una differente vascolarizzazione - spiega la dottoressa Belli - «più irrorate le regioni esterne, raggiunte da molto sangue, ossigeno, glucosio con forte produzione di adenosiltrifosfato (ATP, una molecola energetica), molto meno al centro».
Proprio nelle zone più interne del tumore l’ipossia (questa condizione di minor irrorazione e presenza di ossigeno) induce un aumento di questa proteina dello stress che è una delle responsabili della resistenza alla chemioterapia, «in quanto attiva gli enzimi deputati alla riparazione del danno indotto dai chemioterapici annullandone l’effetto», spiega la Belli.
«La ricerca ha individuato un inibitore di questa proteina che viene estratto dal tè verde e che pertanto si potrebbe somministrare con il trattamento di chemioterapia in modo da renderla maggiormente efficace».
Il primo passo sarà di valutare l’espressione di questa proteina nel mesotelioma, la cui presenza è già stata riscontrata in tumori che presentano alcune caratteristiche analoghe. Successivamente si passerà all’utilizzo dell’inibitore in colture cellulari e poi via via si procederà con le altre fasi della sperimentazione.
Gleevec e Gem
In corso di valutazione sono invece i dati del trial di Gleevec e Gem che è servito se non altro a mettere a fuoco alcune problematiche relativamente alla corretta applicazione del trial e alla individuazione dei soggetti che potrebbero averne un giovamento.
Pare infatti che ci sia una mutazione del recettore: «Molto spesso ci troviamo con pazienti che hanno il recettore espresso che rispondono poco al trattamento e altri che hanno una proteina poco espressa ma hanno un notevole beneficio. L’ipotesi – ritiene Carmen Belli – è che la mutazione del recettore sia responsabile della resistenza al trattamento».
«Sostenere la ricerca»
«Ovviamente tutti questi progetti necessitano di ulteriori finanziamenti - conclude il dottor Luciano Mutti - perché le risorse disponibili probabilmente non saranno completamente sufficienti alla loro conclusione, soprattutto se, come spesso capita in questi casi, ci fossero problemi tecnici durante il loro corso.
«Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti».