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  • 07 dicembre 2019
  • Fubine

Intervista

Il famoso enologo Donato Lanati endurista alla Six Days Vintage in Portogallo

Si è classificato 27° (medaglia di bronzo) su 124 partecipanti a livello internazionale

Nel vino è medaglia d’oro, nella corsa un bronzo, nella vita è argento vivo. Dovunque lo si guardi: è un campione. Sul podio: è di casa. Parliamo di Donato Lanati, il vip internazionale dell’enologia, sommo maestro nella magica alchimia di scienza e genialità, passione ed esperienza, reduce da un’adrenalinica e impegnativa Six Days Vintage di Enduro in Portogallo dove, sabato 16 novembre, si è classificato 27° (medaglia di bronzo) su 124 partecipanti a livello internazionale.

Sono stati 120 chilometri per 4 ore di corsa consecutive al giorno, in sella alla sua Puch 125 S3 del 1980, numero di gara 899, lungo un tracciato particolarmente scosceso e impegnativo, lo stesso percorso delle moto moderne e, come se non bastasse, a renderlo ancora più complicato, sono stati vento, pioggia, battuto scivoloso e pochissimi punti di riferimento.

Donato, è stata più una sfida o un’incoscienza?

E’ stata la realizzazione di un sogno. I sogni più belli contengono sempre un po’ di sfida e di incoscienza.

Un appuntamento di questa levatura ha indubbiamente richiesto un’importante preparazione?

Mi sono allenato un anno per la Six Days Enduro, sia in moto sia in palestra con Giorgio Intoppa (personal trainer), intensificando le ore settimanali, negli ultimi due mesi. Anche l’alimentazione riveste una parte importante nella fase preparatoria: ho seguito una specifica e ben calibrata dieta a base di carboidrati, proteine, sale e grassi. Diversamente, non sarei stato in grado di sostenere la gara.

Dove ti sei preparato?

Lungo 500 chilometri di mulattiere a Vertova in provincia di Bergamo. I bergamaschi mi hanno insegnato molto, aiutandomi a rafforzare tenacia e determinazione.

In Portogallo hai ritrovato compagni di viaggio importanti?

Amici che, nella loro passione, sono leggende: Alessandro Gritti, Piero Caccia e Gualtiero Brissoni.

Il percorso è risultato particolarmente insidioso. Te lo aspettavi in questa misura?

Non abbiamo avuto la possibilità di provarlo a priori. E’ stato, a tutti gli effetti, una sorpresa; decisamente un’allucinante sorpresa. Terreno sconnesso, mulattiere strette e ripide, salite e discese impossibili, terreno scivoloso, fango alto mezzo metro, dislivelli da zero a mille metri. Ora ci sorrido, ma è stato estenuante. Una prova in cui si portano corpo e mente al limite.

Oltre alla difficoltà, anche il rischio di farsi male, dunque?

Sono caduto a terra per ben tre volte, arrampicandomi sulla stessa salita. Fortunatamente nulla di grave, ora ci penserà Giacomo Bolognesi, il mio fisioterapista.

Paura?

Quella c’è sempre, paura di farmi male.

Hai mai pensato di abbandonare o temuto di non farcela?

Sì, l’ho pensato ma, ad un certo punto, è scattato qualcosa. Non so se si chiami orgoglio o cos’altro. Nella mente ho trovato la mia forza; ho usato tutto quello che c’era in me. Non potevo mollare, dovevo andare, dovevo arrivare…dovevo.

Anche la tua Puch ha fatto la sua parte, si è dimostrata all’altezza?

Sì, decisamente. Grazie anche a Piero Frigerio che l’ha preparata. Lei è mitica: una perfetta compagna di gara. E’ una moto monocilindrica a due tempi. Già nel 1960, con la versione MC, la Puch giunse all’apice del successo nella Sei Giorni Internazionale in Austria a Bad Aussee. Il mio amore per la Puch risale a quando ero ragazzo: dopo la Vespa 50, la Ktm 175 e 360, e la Beta 520, arrivò la mia prima Puch. Da allora non l’ho più lasciata: è performante e aggressiva, equilibrata e capace di grandi prestazioni. Dopo la gara in Portogallo, l’ho sistemata nel mio salotto. Posare il mio sguardo su di lei continua ad essere una delle reminiscenze più belle.

Cos’è per te la moto?

E’ la storia della mia vita, fin da quando ero ragazzino. La moto non è solo uno sport: è uno stile di vita che regola attività fisica e alimentazione, insegna rispetto, attenzione e cura, trasmette stimoli e gratificazioni. La moto mi rigenera, mi ricarica, mi fa respirare l’intensità della vita.

Dicci di quando hai tagliato il traguardo.

Sono scoppiato a piangere. Ho pensato ai miei genitori, a mamma Giuseppina e a papà Angelo. Ho riassaporato la nostra intimità e il profumo della famiglia, nei momenti importanti della vita.

La sensazione qual è stata?

Mi sono sentito come un ragazzino. Come quando avevo 22 anni. Un’incredibile energia e una sorprendente vitalità, che pensavo sopite. Mi sono sentito vivo come non mai.

Cosa ti ha lasciato questa speciale esperienza?

Più di ieri, sono convinto esista un aldilà. In me, non esiste più una demoralizzazione: mi sento più sicuro. La Six Days Enduro è una prova che era dentro di me; una metafora della mia vita, per il senso dell’imprevedibilità, l’intelligenza della traiettoria e la sfida. Ho imparato a vedere con altri occhi ogni cosa e a comprendere che c’è sempre una possibilità.

Anche quella di bissare il prossimo anno, forse, in Italia?

Forse sì, forse sarà l’ultima. La voglia c’è. Un po’ di incoscienza, anche.

A chi dedichi questa conquista?

Alle persone a cui voglio bene… a me stesso.


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