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  • 08 marzo 2016
  • Casale Monferrato

Evasio Soraci: «Assurdo e stolto pensare di sopprimere i piccoli Comuni»

“Il Monferrato”, in un recente articolo, ha riportato il pensiero di Riccardo Triglia in merito alla prospettata soppressione-riaccorpamento di piccoli Comuni (quelli ad esempio inferiori ai 5.000 abitanti), di fatto sopprimendoli. Triglia evidenzia la sua più totale e marcata contrarietà a tale prospettiva, pensiero non nuovo il suo, in quanto l’aveva già chiaramente espresso più volte, anche - lo ricordo bene - alcuni anni or sono, sulle colonne di questo giornale. Io sono pienamente ed incondizionatamente d’accordo con lui, anche - e soprattutto - in qualità di geografo. Il fatto che Riccardo esprima sul tema un parere sensato si lega al fatto - oltre all’intelligenza e alla cultura della persona - che non ha fatto solo, per diverse legislature, il Senatore della Repubblica, ma, prima di questa esperienza, abbia maturato una significativa pratica a livello amministrativo prima come consigliere comunale e poi come assessore al bilancio. Inoltre, contemporaneamente all’attività parlamentare, ricoprì abbastanza a lungo la carica di sindaco proprio di un piccolo comune del Monferrato casalese, Coniolo, coadiuvato da un ottimo vice sindaco-contadino che si chiamava Leporati. È del resto quello il periodo in cui la sinistra democristiana casalese espresse ben due veri e propri maestri nel campo della programmazione, sia economica che territoriale – amministrativa: Carlo Beltrame ed, appunto, Riccardo Triglia. È assurdo e stolto - per usare solo un eufemismo - pensare di sopprimere i piccoli Comuni: in essi si riconoscono le comunità di questi territori, i cittadini, gli utenti, pensiamo solo agli anziani, che conoscono personalmente e sovente per amicizia sindaco e assessori, con cui si sentono di colloquiare a proprio agio, conoscono l’impiegato/a comunale, a cui si rivolgono per la carta d’identità o altro, trovano sul posto tanti servizi di cui hanno bisogno, senza essere costretti a defatiganti spostamenti, per altro in situazioni in cui il sistema dei trasporti non brilla particolarmente per efficienza. È evidente che tutto ciò parte dalla “(…) spending review (diffidare sempre, in Italia, dell’uso dell’inglese per esprimere concetti per i quali basta e avanza l’italiano)” (cfr. Fabrizio Bartaletti, Un nuovo disegno politico – amministrativo e territoriale per l’Italia, in “Rivista Geografica Italiana”, 122 (2015), p. 404). Senonché balza evidente che sono ben altri gli sprechi all’interno del nostro paese. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva promesso molte cose e si era, in base a ciò, meritato, allora anche giustamente, la fiducia degli italiani (vedi la schiacciante vittoria alle primarie come anche il brillantissimo risultato alle elezioni europee). Ebbene, di quelle promesse poco è stato mantenuto. Lascio perdere più generali argomenti per rimanere su quelli oggetto del presente articolo. Le Province avrebbero dovuto essere soppresse come enti sorpassati, nelle loro funzioni e capacità di azione e movimento come anche per - almeno in numerosi casi - confini territoriali di matrice prefettizio – napoleonica. Vediamo invece che le Province sono rimaste con qualche giochetto de fisonomia, direbbe il grande Trilussa (ad esempio il presidente diventa il sindaco del Comune capoluogo, o chi per esso). Il Senato avrebbe dovuto essere abolito, come ente che ripete, sic et simpliciter, ciò che fa la Camera dei Deputati. Ma qui ha ancora ragione Trilussa, in quanto, con qualche riverniciatura - talora anche un po’ maldestra - il Senato viene riconfermato. Ma, anche per quel che riguarda la Camera, Renzi aveva detto a suo tempo, giustamente, più o meno così: c’è una cosa che funziona in Italia, l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali, si faccia la stessa cosa per la Camera (i cittadini votano per il presidente del Consiglio e per la maggioranza che lo sostiene; se vogliono, all’interno di questa danno un voto ad un partito della coalizione e, sempre se lo vogliono, all’interno di quella lista esprimono una o massimo due preferenze per i candidati; una bella soglia di sbarramento (secondo me dovrebbe essere il 5%) e un congruo premio di maggioranza per garantire la governabilità; se al primo turno nessuno dei candidati Presidente supera il 50% dei consensi, quindici giorni dopo si va al ballottaggio; in tal modo un minuto dopo la conclusione dello spoglio delle schede il cittadino sa con assoluta certezza da chi sarà governato per i prossimi cinque anni). Invece: niente di tutto questo. Si è pervenuti ad un colossale pasticcio, che, tra l’altro, continua a privare i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti nella massima assemblea elettiva, per delegare questo, ancora una volta, ai segretari di partito. In buona sostanza, a livello delle riforme istituzionali, Renzi ben poco di quello che aveva promesso ha mantenuto. Mi rendo conto delle difficoltà: il dover trovare compromessi all’interno di una maggioranza piuttosto eterogenea, una maggioranza al Senato piuttosto risicata, e poi, cosa che mi pare veramente assurda, il fatto che la più accanita opposizione ce l’abbia all’interno del suo stesso partito. Si dovrebbe però porre questo interrogativo: premesso che il compromesso faccia parte della politica e che la politica sia sintesi e mediazione, fino a che punto conviene non mantenere le promesse fatte per tirare comunque avanti. Non è meglio prendere atto che quel che volevo fare non lo posso fare e tornare alle urne? Ovviamente è un problema che lascio alla sua coscienza. Ma io ho ancora un’altra idea che -me ne rendo conto perfettamente- è non poco provocatoria. Io sarei per l’abolizione anche delle Regioni. È noto che le regioni segnate nella nostra carta costituzionale, sul pensiero di Cesare Correnti, in epoca risorgimentale erano meri compartimenti statistici. Si è dovuto aspettare più di cento ani (1970), perché i cittadini venissero chiamati per la prima volta ad eleggere i consigli regionali. Allora forti speranze investivano un largo schieramento di forze democratiche: si pensava che la creazioni delle Regioni avrebbe permesso a questo ente intermedio di essere particolarmente vicino ai problemi dei cittadini. Quando però negli ultimi tempi -è balzato evidente da troppi avvenimenti vergognosi- queste si sono trasformate in associazioni per delinquere, bisogna avere il coraggio di dire che ci eravamo sbagliati -sia pure in buona fede ed anche ammettendo che per un po’ di anni sia andata come si sperava- e tornare sui propri passi ed abolire un ente che si è rivelato più dannoso che utile. Non sono mancati studiosi che hanno proposto nuove partizioni regionali; quella più gettonata sembra essere la soluzione che individua le seguenti regioni: Valle d’Aosta, Piemonte – Liguria, Lombardia, Tirolo, Venezia – Friuli (comprendente Trento, il Veneto e il Friuli – Venezia Giulia), Emilia Romagna – Toscana, Umbria – Marche, Lazio, Abruzzo – Molise – Puglia, Napoli (comprendente Campania, Basilicata, Calabria), Sicilia, Sardegna. Ciò non mi convince, intanto perché la scientificità di tale partizione è tutta da provare, e poi non si capisce come possa bastare ampliare i confini amministrativi per risolvere, come d’incanto, tutti i problemi, nonché impedire che si continui a rubare. Il contributo degli studiosi ed in particolare dei geografi mi sembra importante, ma devono essere geografi bravi, che, secondo una saggia definizione storica della disciplina, sappiano fare geografia coi piedi, cioè calcare in lungo e in largo il territorio che intendono studiare e in cui si tratta di intervenire, conoscere a fondo i luoghi, con gli aspetti naturali e paesaggistici, e soprattutto affrontando il confronto con gli abitanti, con le loro aspettative, con le loro tradizioni ed esigenze, con la loro cultura popolare e materiale. Invece sono rimasto scandalizzato del fatto che un importante sodalizio geografico nazionale -di cui pur ho fatto parte per diversi anni- abbia proposto la creazione di macroprovince (mi pare 36), tra cui risulta in Piemonte il toponimo Langhe, che verrebbe a comprendere anche Roero e Monferrato, ma il toponimo Monferrato scompare. Ci troviamo di fronte ad una colossale assurdità (sempre usando eufemismi). Non si tratta di campanilismo, ma il Monferrato (pur non essendo sempre facile storicamente delimitarne confini precisi, come avverte giustamente Settia - (cfr. Aldo A. Settia, Monferrato. Strutture di un territorio medievale, Torino, Celid, 1983), è territorio con una sua storia importante, storia per secoli di un vero e proprio stato, con una sua peculiare identità, per cui, a livello di spazio vissuto e percezione dello spazio, identifichiamo il Monferrato con un certo paesaggio, un certo parcellare agrario, con l’enogastronomia, con l’agriturismo, con forme di turismo sano e rispettose dell’ambiente, con una certa cultura. Tornando alle mie proposte,verrebbe così a crearsi una nuova struttura efficiente e semplificata: Unione Europea (profondamente e radicalmente trasformata), Stato italiano, con i suoi organismi istituzionali (Presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, Ministri, una unica Camera che, a questo punto a tutti gli effetti diventerebbe il Parlamento nazionale, con non più di 600 membri (ma potrebbero anche essere meno, se andiamo a confrontare con paesi ben più estesi e popolati del nostro, come gli USA); ed infine i Comuni: che bell’esempio di efficienza, di agilità di strutture, di risparmio, di lotta agli sprechi. Piuttosto, secondo la proposta emergente da studi profondi di un geografo, questa volta molto valido, Giuseppe Dematteis, i Comuni, partendo dal basso, liberamente e godendo di una ampia autonomia, potrebbero creare tra loro come una struttura a rete, che permetta di affrontare collegialmente una serie di complesse problematiche: pianificazione territoriale, una serie di servizi, trasporti, istruzione, iniziative culturali, tutela del patrimonio, turismo. I nostri piccoli Comuni del Monferrato casalese ci danno spesso, pur nella scarsità dei mezzi a disposizione cui supplisce l’impegno strenuo e la creatività degli amministratori, un a testimonianza esemplare di buon governo e di capacità d’iniziativa, sì che spesso bagnano il naso a più grandi centri. Gli esempi potrebbero essere infiniti, per cui mi scuso se dimentico tante cose, ma intendo solo fare qualche esempio: il Comune di Frassineto è ricco di iniziative qualificate (villaggio del libro, mostra permanente sul paesaggio fluviale del Po, una serie ricchissima di incontri, conferenze, mostre. Il Comune di Ticineto pure ha fatto tanto (valorizzazione della figura di Cesare Pavese). Terruggia ha un proprio teatro operante. Coniolo fa una magnifica festa dei fiori. Tante sono le iniziative popolari a Rosignano. Cella Monte ha favorito quella meraviglia, che è il museo e centro studi per la pietra da cantoni. Ozzano è famosa per il barat da Usan. Conzano è ricchissimo di mostre e iniziative culturali. Camagna ha valorizzato i propri infernot e vede al suo interno la presenza di un’ ANPI estremamente attiva e motivata. Vignale ha creato quel grande evento -e speriamo che possa continuare a lungo sul posto- di Vignale danza. A Murisengo si fanno suggestvi mercatini. Non dimentichiamo il contributo intelligente, straordinario di donne – sindaco (probabilmente dovrebbero diventare in maggior numero) come quelle di Fubine e Grazzano Badoglio. Allora, se i Comuni minori del Monferrato casalese presentano tutti questi punti di eccellenza, è cosa saggia sopprimerli? E’ saggio eliminare ciò che funziona bene? Direi proprio di no. Lasciamo poi a loro -e ne hanno tutta la capacità- il compito di dare vita dal basso a nuove forme di aggregazione e di creare strutture a rete.

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