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Tre monferrine - Lucia, Patrizia e Roberta - raccontano la loro quotidianità

Donne forti... ma all’angolo

Oppresse da mariti-padroni, da anni vivono nel silenzio

Una goccia di profumo, un velo di trucco, borsetta stracolma e via al lavoro; cappelli raccolti, lista della spesa sulla lavagnetta in cucina, la Messa la domenica e fornelli accesi; una corsa nei boschi, un lampada nel centro estetico, un libro sul comodino e i compiti dei figli e, poi ancora, una valigia sempre pronta, la convalida del biglietto appena obliterata, il giornale sotto al braccio e l’Iphone all’orecchio.

Sono le donne, tante donne, diverse donne. Donne in corsa, donne mai ferme, donne che vanno e donne che scappano. Sembrano forti, coraggiose e inattaccabili; sembra che tutto giri più o meno liscio e veloce nella loro vita e che ogni cosa sia al suo posto e nulla parrebbe mancare. Sembrano, sembra. Spesso, dietro a cotanta apparente normalità e tranquillità si nascondono gli scenari più inquietanti, quelli più impensabili, quelli più devastanti. Sono le donne che quotidianamente subiscono violenze psicologiche da mariti, famigliari o datori di lavoro e, in silenzio, incassano, elaborano e implodono, senza che le vibrazioni smussino gli equilibri domestici e lavorativi.

Sono le donne che fanno palestra quotidiana al cospetto di uomini maschilisti, possessivi ed egoisti. Sono Lucia, Patrizia e Roberta, diverse per status sociale, formazione, cultura, età e abitudini, sono monferrine unite dallo stesso genere e dall’incapacità di reagire e fuggire, per un perverso senso di colpa che le assale, ogni volta il solo pensiero le sfiora. Lucia è in pensione da qualche anno, ha frequentato l’università, ha esercitato la sua professione per tutta la vita e ha tre figli. Si racconta, ci racconta, di un marito sempre assente, il cui lavoro è sempre venuto prima di ogni cosa; di un marito distratto, avaro di cortesie, gentilezze e attenzioni, di un marito che le ha sempre messo soggezione ogni qualvolta lei ha tentato di aprire un dialogo, per finire, immancabilmente, senza essere compresa.

Alla tavola argomenti astratti e sterili, o musi lunghi, silenzi inspiegabili, prepotenze gratuite, toni accesi e pretese scontate. Patrizia, donna in carriera, due figli e un matrimonio stanco da più di quattro lustri, paga ancora oggi il silenzio di troppi anni di accettazione, desideri e sogni repressi, istinti domati, corse frenate e dialoghi soffocati. «Mi sono sposata forse troppo giovane - ci racconta Patrizia - con il desiderio di libertà, quella che mio padre mi ha sempre negata. È stata illusione. Effimera illusione.

L’uomo, così come la donna, non sono simbionti l’uno all’altro. Sono individui a sè», ci precisa ribadendo che trattasi solamente del suo personalissimo punto di vista, «è naturale e, spesso, normale, che l’evoluzione della loro vita segua nature distinte e percorra imprevedibili vie, che ad ognuno di loro appartengono, arricchite dai differenti percorsi formativi, dalle diverse esperienze lavorative e dai variegati incontri. È dunque possibilissimo che si ritrovino, a distanza di anni, con bisogni, curiosità, desideri e necessità diverse. Non è un delitto, è una probabilità umanamente possibile». Una pausa, un sospiro e Patrizia riprende il suo ragionamento, «ho rinunciato a continuare gli studi per non urtare il suo sentire, ho rinunciato a vivere la mia famiglia come avrei voluto, visto che a lui non è mai piaciuta, ho rinunciato ad inseguire sogni, a vivere momenti e a scappare al mare o ai monti, perché il bilancio famigliare doveva venire prima di tutto.

Tutto sacrosanto… ma per lui, non per me. Le diversità quando si acuiscono, si pagano a caro prezzo. Se si soffocano, chiudono dialogo, progettualità e futuro». Roberta lavora da anni in un’azienda informatica, è sposata, ha un figlio, genitori con gravi problemi di senilità e, lei stessa, ha una patologia cronica che da almeno trent’anni finge non le appartenga. Corre, non sta mai ferma, ha paura di stare sola con se stessa e di pensare.

Ha paura che i suoi ragionamenti la divorino lasciandola a pezzi. Lei deve essere forte per tutti, per coloro le ruotano attorno. Del resto lei è forte, le ripetono alla nausea, non può fermarsi. Ma Roberta piange la sua solitudine più profonda, la sofferenza di ali tarpate, l’incapacità di esprimere e condividere il suo sentire. Si sente come una matta tra tanti “normali” o, viceversa. A Roberta non piace la normalità, quella fatta di pretese e di convenzioni, mai di gentilezza, mai di dolcezza, mai di abbracci e carezze, mai di pazzie, mai di discese senza mani e ad occhi chiusi sulla sua vecchia mtb. Al lavoro deve accettare le prepotenze del suo capo, solo perché è donna e solo perché, più volte, ha rifiutato il suo invito a cena e, soprattutto, perché è brava, anche più di lui.

A casa, quando il dialogo è incomprensione, si ritrova persa sotto le lenzuola ad aspettare un marito che non le risponde al telefono e non sa se rientrerà. Scriveva Alda Merini «ci sono donne e poi, Donne e Donne… amale senza trucco, perché non sai quanto gli occhi di una donna possano trovare scudo dietro ad un velo di mascara». Sono le Donne Donne che malgrado le sofferenze subite per incomprensione, mancanza di rispetto e di considerazione, o semplicemente perché sentono esaurita una stagione di vita, non sono capaci di sciogliere le catene e andare perché, nella loro natura, c’è anche l’altruismo, la preoccupazione di lasciare sofferenza in chi resta.

Ma sono anche donne piene di dignità. Sono le donne che accelerano al lavoro, nella società e in famiglia. Sono le donne che cadono, sbagliano, si fanno male, ma che si rialzano sempre in piedi. Sono donne esigenti con se stesse e con gli altri, sono le donne che non si accontentano mai, ma sono anche le donne consapevoli che, al bisogno, l’unica spalla sulla quale aggrapparsi, è sempre e solo la loro… la più solida e sempre presente.


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Silvio Morando

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