Articolo »

«Con i belgi si lavorava in una nuvola di polvere». Ma perché anche dopo non è mai stata fermata la produzione?

Il nome di Stephan Schmidheiny è risuonato numerose volte martedì in aula a Torino, pronunciato dai dirigenti stessi di Eternit, lo svizzero Manuel Arni, classe 1938, dal 1982 al 1988 alla guida del gruppo Everit in Sudafrica, società quotata in borsa e controllata da Eternit e Otmar Wey, nato nel 1932 anch’egli in Svizzera, ingegnere meccanico in pensione. Schmidheny, è emerso, ha gradualmente preso le redini del settore amianto ereditandolo dal padre Max. Quando? Qui le cose si fanno meno chiare, ma su un aspetto sembra concordino i due ex dirigenti di Eternit: se non si sa bene quando abbia assunto la piena responsabilità relativamente al settore amianto (verso la fine degli Anni Settanta, è parso di capire), c’è la ferma certezza che già dal 1972-73, appena gli svizzeri assumono il controllo della multinazionale, Stephan Schmidheiny abbia cominciato a combattere all’interno del gruppo una strenua battaglia per la salute dei lavoratori, confrontandosi e imponendosi contro tutto e tutti; persino sul padre Max e sui problemi economici del gruppo al punto che anche a fronte di bilanci critici - hanno detto i tecnici rispondendo alle domande dei difensori di Schmidheiny - mai, mai!, è stato negato qualche intervento che potesse migliorare la sicurezza e la tutela della salute dei lavoratori suggerito dai tecnici. Insomma piuttosto pagavano di tasca propria gli interventi, ma non rinunciavano a investire sulla sicurezza. Se non è filantropia... Il tecnico-affabulatore Il teste decisivo è stato senz’altro Wey, ingegnere meccanico che in Eternit ci ha passato praticamente la vita, dal 1957, appena dopo la laurea, fino al 1983. Il Tribunale lo ha fatto avvicinare e giurare, poi quando si è seduto il presidente gli ha fatto sputare il chewing-gum nel cestino. E solo a quel punto si è scoperto che era imputato in un altro procedimento penale, che doveva essere assistito da un legale di sua fiducia e che occorreva rivolgergli la domanda di rito, se voleva o no rispondere. «Voglio rispondere», ha confermato il teste che peraltro era giunto appositamente dalla svizzera e per il quale la difesa Schmidheiny (accusato dalla Procura di Torino di disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antifortunistiche e il belga Louis de Cartier) ha chiesto l’assistenza dell’interprete. Un tecnico - l’ingegner Way - ma più ancora un affabulatore, che ha dato la sensazione di essere perfettamente a suo agio con la lingua italiana, visto che in più occasione ha persino corretto la traduzione dell’interprete. Un tempo utile per riflettere, indubbiamente, quello richiesto per la traduzione delle domande, e che ha al tempo stesso neutralizzato il fuoco di fila delle domande della pm Sara Panelli che il giorno procedente aveva «torchiato» l’ex ad Luigi Giannitrapani con domande a raffica che non lasciavano più di tanto il tempo per «studiare» le risposte. Comunque preparatissimo, Wey, ha dimostrato una profonda conoscenza della realtà Eternit e ha confermato il racconto di moltissimi lavoratori. Solo - però - relativamente al periodo belga. «Tutta colpa dei belgi» Uno degli aspetti senza dubbio rilevanti della deposizione di Wey è stata proprio la descrizione delle condizioni di lavoro precedenti il passaggio di consegno tra belgi e svizzeri. «Si lavorava in una nuvola di polvere...». E ancora: «Ce n’era tanta così», facendo con indice e pollice il segno di 7-8 centimetri di altezza. Un particolare che il presidente del Tribunale Giuseppe Casalbore ha fatto in modo fosse registrato a verbale. Una situazione di estremo pericolo visto che a Wey era stato spiegato quali potevano essere le conseguenze dell’inalazione delle fibre di amianto, dell’insidia dell’asbestosi ma non solo, anche della minaccia del tumore al polmone, esaltato dal fumo, e del mesotelioma. L’avvento degli svizzeri - ha detto Wey ha coinciso - con l’inizio di una stagione diversa con investimenti che sono continuati per anni e che sono giunti a compimento verso la fine degli anni Settanta. Tra i punti a favore di Stephan Schmidheiny, secondo i suoi due ex dirigenti, la ricerca di fibre alternative, utilizzate in parte in Germania e in Svizzera, e anche in Sudafrica, mai in Italia. La domanda chiave Una tesi che in fondo è stata smontata da una domandina di poche parole dell’avvocato Oberdan Forlenza in aula per difendere parte delle tante vittime dell’Eternit. «Avete mai pensato - ha chiesto il legale a Wey - quando avete preso il controllo della società e avete trovato una situazione che voi stessi avete definitito “catastrofale” di sospendere la lavorazione per evitare che i lavoratori si ammalassero e morissero?» «No», è stata la risposta laconica, inevitabile dell’ingegnere tedesco, che ha dimostrato di saperci fare con le parole, ma che non poteva cambiare la storia di una lavorazione ininterrotta che ebbe proprio negli anni 1980-1981, sotto la guida svizzera - in base alle ricostruzioni dei periti - il suo apice. E forse per la stessa ragione Manuel Arni - che ha raccontato di avere spesso vinto il premio per la fabbrica più pulita che c’era tra gli stabilimenti Eternit - non ha saputo dire dove si collocasse Eternit Italia: «Sapevamo chi erano i primi tre, non necessariamente chi fosse il dodicesimo...».

Profili monferrini

Questa settimana su "Il Monferrato"

Valerio Longhi

Valerio Longhi
Cerca nell’archivio dei profili dal 1871!