I ricordi di Elena Cappellano - Casalesi in Australia - Springbock, il presidio sudafricano - Sul treno per Casale - Palli -Pioppi-Liceo- Monferrato Tricolore
di Elena Cappellano
UN LIBRO CHE ALLARGA L’ANIMA
Appena ho imparato a leggere, oltre ai libretti d’opera che mio padre aveva raccolto numerosi e che, essendo piccoli, mi parevano adatti ai bambini, ho in cominciato a gettarmi su tutto quello che di abbastanza comprensibile trovavo in casa.
Mia madre, che aveva incominciato le elementari durante gli ultimi anni della prima guerra mondiale, mi allungò i suoi primi libri di scuola, su cui mi gettai avidamente, leggendoli e rileggendoli. Nessuna illustrazione, storie di povere famiglie contadine, (il padre Venanzio, mi pare) che venivano ad abitare in città e dovevano avvezzarsi a una vita nuova ; storie alternate con quella della capra di monsieur Séguin, o a passi di DeAmicis, o a qualche breve poesia di Pascoli che oggi non si legge più ma che io ricordo, o a poesie create apposta per i bambini, con titoli come Omobono e Cattiveria.
C’era anche un libro premio dalla copertina rigorosamente grigia e con ambizioni linguistiche: insegnava i nomi italiani di alcuni oggetti di uso comune che ogni regione chiamava a modo proprio, e cercava di realizzare su un tono abbastanza serio quell’operazione di unificazione linguistica che, come sentii dire non so quanto ironicamente a Pasolini quando venne a parlare ai Venerdì letterari del Carignano, fu poi condotta a termine, ohimé su un altro piano, dalla televisione.
Questi ricordi si fanno più vivi oggi, nell’imminenza delle celebrazioni per l’Unità d’Italia, che qui a Torino sentiamo profondamente e a cui è dedicato il bel libro strenna del Monferrato (Monferrato Tricolore, ndr).
Naturalmente io ho incominciato a leggerlo a rovescio, cioè dalla seconda parte, quella che riguarda le testimonianze artistiche, perchè i monumenti che quotidianamente avevo veduto per tanti anni mi affascinavano in modo particolare.
Sono quelli dedicati a personaggi monferrini fondamentali per l’unità dell’Italia uscita dal Risorgimento, come quello a Urbano Rattazzi alla base del quale giocavo fino a sera, beatamente ignorando che fosse opera di Bistolfi, quando si accendevano le luci e mia madre mi chiamava dalla finestra. Certo più tardi ho imparato tante cose su quel personaggio col pince-nez , ma non tante quante sono le benemerenze ricordate alle pagg. 37-38 del volume.
E quante volte ho visto il monumento a Mellana, e percorso la via omonima!
Leggendo a pag. 139 ho anche scoperto perchè l’Hotel Principe, in cui ho passato bambina i miei primi giorni di vita casalese, abbia questo nome: all’inaugurazione nel 1887 non era venuto il Re, come promesso, ma il Principe Eugenio di Savoia Carignano. La cerimonia è descritta con dovizia di particolari.
E quante volte ho letto il nome di Ottavi sulla lapide posta all’angolo della via in cui abitavo con via Cavour!
Sempre nella seconda parte ho trovato molto accurati e interessanti gli articoli sulle testimonianze poetiche, musicali, pittoriche e archivistiche e soprattutto storiche di cui Casale è ricchissima.
Ma poi ho ricominciato a leggere il volume dal principio, così come si deve fare, incominciando dalle bandierine segnate sui vari paesi nella pagina che porta la planimetria del Monferrato.
I capitoli che si succedono sono articolati in tre settori, da quello più squisitamente storico, a quello che contiene le curiosità anche recenti, alle pagine ricche di particolari a cui siamo stati abituati dai due curatori, Angelino e Roggero, leggendo i resoconti quasi settimanali dei viaggi d'autore in Monferrato.
Splendide le descrizioni di palazzi che ospitarono personaggi risorgimentali nei vari luoghi (prima, com’è giusto, Alessandria, capoluogo di Provincia).
Le pagine più emozionanti - anche se tutte sono poste in ordine rigidamente alfabetico - mi sono parse quelle su Bozzole, e l’ingegner Noè, e l’allagamento delle risaie che fermò definitivamente gli Austriaci. Tutte con accurate testimonianze scritte ed epigrafiche.
Sulla Brigata Casale ho imparato una quantità di cose che non sapevo: episodi e descrizioni di luoghi che trovo presentati sotto luci nuove.
Così brilla oggi per me di luce nuova il monumento che ero abituata a vedere nei giardini vicino al Po, quello alla Difesa di Casale, di fronte al quale possiedo una foto di mia sorella piccolissima, e accanto a cui, anni dopo, mi ero fatta riprendere mentre tenevo in mano “Il mestiere di vivere” di Pavese che avevo appena comprato.
Insomma, è stata per me emozionante la lettura di questo riuscitissimo volume, che non può fare a meno di illuminare i laghi dell’abitudine per chi bene non conosceva la forte partecipazione monferrina al Risorgimento, e di approfondire l’amore che per questa terra nutrono quanti l’hanno conosciuta.
Elena Cappellano
VIA MAGNOCAVALLO
Il concerto, nel grande Auditorium del Lingotto, tutto foderato di legno di ciliegio, era esaltante: dal concerto per violino e pianoforte di Beethoven a quello di Brahms, per finire con la deliziosa, insinuante “petite phrase” che Frank ha inserito nel suo, e che apre per un attimo lo sguardo su tutto il mondo proustiano
La grande sala ospitava il concerto della serie pari dell’Unione Musicale di Torino, che normalmente si sarebbe svolto al Conservatorio: ma il concerto aveva attirato tanti spettatori che non c’era un posto libero. C’erano anche quaranta casalesi arrivati con un pullman.
Fu cos’ che mi trovai a salutare e ad abbracciare (in realtà non era la prima volta, ricordai, era già successo a Casale in San Domenico parecchi anni fa) un robusto e distintissimo signore con gli occhiali: Pierenrico Montiglio, insigne medico casalese del Santo Spirito, ormai in pensione.
Non so se si sia accorto che io in realtà stavo abbracciando un ragazzino coi calzoni corti, che veniva a giocare con me e con altri coetanei nella via Magnocavallo (sic) di tanti anni fa, dove suo padre aveva un ufficio.
La via compare spesso nelle mie rievocazioni di un’età così importante come è quella della prima adolescenza. Forse perchè sono stata influenzata dalle immagini che mi hanno tanto colpita durante una mia visita a Lione dove i personaggi che vi hanno abitato sono raffigurati sulle pareti di quelle che sono state le loro case, spesso compaiono nella mia memoria, davanti ai pochi portoni che compaiono in quella breve via (il mio, che era l’ultimo, portava il numero 11) le persone che vi abitavano, e soprattutto i ragazzi con cui giocavo negli anni più infantili, o con cui, più tardi, chiacchieravo o discutevo.
Compio abitualmente il percorso all’indietro, partendo dai gradini di casa mia, appunto al numero 11, su cui era così piacevole sedersi a parlare fra noi, soprattutto negli anni di guerra che costringevano ciascuno a casa. Qualche anno prima, invece, con un Enrico in
calzoni corti e con Jucci Cornero la cui madre aveva un negozio di vini di fronte a casa mia, ci si rincorreva o si giocava al pallone.
Di fianco alla mia casa, dietro un cancello, si apriva un vicolo coperto di erba, e durante le ristrettezze belliche io, aiutata dagli amici, ci portavo a pascolare degli anatroccoli che tentavo di allevare sulla mia terrazza. In fondo al vicolo, al primo piano, si apriva un balconcino appartenente a un’altra casa, e io a volte conversavo con una ragazzina un poco più grande di me, che però in strada non scendeva. - Mi chiamo Pupetta,- mi aveva detto un giorno.
Il portone successivo, procedendo in direzione di via Cavour immetteva in un cortile su cui si aprivano diverse scale. Salendo una di queste si arrivava a casa del mio amico Celestino, che spesso veniva a giocare con noi, o più tardi a sedersi a conversare sui gradini con gli altri. Lì, da via Mameli, durante la guerra, arrivava anche Renzo Monzani che di noi era un po’ più vecchio
Dalle finestre del suo solaio (sul balcone sua sorella cantava spesso: ho sognato una bambola rosa..) Celestino veniva ogni tanto ad ascoltare i piccoli pezzi che io con aria ispirata suonavo al pianoforte davanti alla finestra aperta.
Più avanti, dall’altra parte, quella dei numeri pari, si apriva un vicolo che arrivava fino a via Piccaroli, e lì abitava la mia amica Anatrini, figlia di un bidello della mia scuola: anche con lei ho giocato e chiacchierato.
La colonia più nutrita usciva però dal numero 7, dove abitava il colonnello Panzarasa con la sua numerosa famiglia. Io giocavo con il figlio più piccolo, Maurino, che aveva la mia età e durante l’infanzia era stato animato dalla stessa mia voglia di correre fino ad arrampicarci sul monumento di piazza Rattazzi. Ma le sorelle erano oggetto della mia invidia, quando dalla mia terrazza le vedevo sciorinare il bucato sull’altana, quella stessa su cui sarebbero salite nelle notti di luna durante la guerra perchè, assicuravano, di lì si potevano scorgere le luci dei bombardamenti.
C’era anche , nella famiglia, un fratello più grande, professore, che più tardi avrebbe lavorato dall’editore Marietti.
Al penultimo numero pari si apriva (in realtà era quasi sempre chiuso) l’ufficio amministrativo del canale Rotaldo. Ma questo lo conobbi più tardi, quando ci andava a studiare il nipote del titolare, dopo la guerra. Allora il misterioso portoncino rimase spesso aperto.
Anche la madre di Walter Zanassi, che abitava all’ultimo numero pari, era bidella, ma alle scuole elementari di via Cavour. Con gli occhi della memoria rivedo anche questo amico percorrere il breve tratto di via nei pomeriggi di guerra, per venire a chiacchierare con tutti noi sui gradini di casa mia , o nel minuscolo giardino della banca.
Oggi la vitalità delle piccole vie, anche nella città di provincia, si è spenta. Tante macchine le percorrono, bloccano i marciapiedi , e dalle finestre balena la sera la luce dei televisori.
Elena Cappellano
CENTOCINQUANT’ANNI DEL LICEO PALLI
Ho letto che si celebrano i centocinquant’anni del Liceo Palli: del mio liceo!
Quante volte l’ho rivisto in sogno (dicono che siano sogni molto frequenti per tutti, dettati dall’affetto, dalla paura di esami e interrogazioni, come è facilmente intuibile).
Io ho l’impressione di ricordare tutto degli anni trascorsi fra quelle mura, dal primo anno in cui cadeva l’anniversario del Tasso in cui la mia insegnante, la professoressa Pagliano, era stata scelta per tenere a tutta la scuola delle lezioni sulla Gerusalemme Liberata e sull’Aminta. Così fu che io imparai a memoria un mucchio di stanze, da “Canto l’arme pietose e il capitano”.... mi appassionai veramente alle vicende di Clorinda e Tancredi, in quell’anno in cui si poté ancora studiare nel bell’edificio di piazza Castello che l’anno dopo sarebbe stato occupato dai tedeschi per impiantarvi il loro Quartier Generale.
Noi emigrammo al collegio Trevisio (non sapevamo che in quegli anni viveva lì anche un giovanotto che si chiamava Pavese). Le nostre aule erano a piano terra, e durante l’intervallo ci aggiravamo per il chiostro. anni di processi e di condanne: alla nostra compagna Renata Leporati la professoressa aveva detto: -Siamo tutti con te -.
Solo dopo la Liberazione, quando la vita sembrò tornare normale, all’inizio dell’anno scolastico che incominciava verso i Santi ci riappropriammo del nostro Istituto. Il dopoguerra era ancora freddo, e a scuola andavamo con i calzettoni.
La nostra Segretaria, la signorina De Polo se ne partì per l’Australia in quegli anni in cui tanti emigrarono, e io non ne seppi mai più niente. Ma ormai il Liceo era nostro. Per tre anni il prof.Vautero ricoprì la cattedra di italiano. Quando arrivò il Preside Omodeo, che poi venne a Torino e morì abbastanza giovane , e che io non ho mai dimenticato per la ventata di innovazione che portò nella scuola, io frequentavo già la seconda perchè ero stata solo tre anni alle elementari. Ma non per questo mi sentivo più giovane degli altri e mi piacevano i miei professori.
Il professor di greco, Menighetti che noi chiamavamo familiarmente Meniga, era pignolo e piuttosto severo; l’indulgente signora Giannone ci insegnava Scienze e Chimica e la severissima prof. Rabagliati, non ancora Preside, fin dalla quarta Ginnasio ci aveva insegnato matematica, che a me non piaceva per niente, ma in cui riuscivo facilmente, tanto che poi mi laureai in psicologia con una tesi di statistica.
Il clima vero era per noi segnato dai professori di filosofia.
Di Jannaccone, definendolo straordinario, mi avevano già parlato gli amici che ormai erano all’Università,che l’avevano avuto come insegnante prima che partisse per la guerra. Ne eravamo tutte innamorate, ma l’anno seguente se ne tornò a Torino, e tanti anni dopo (erano i feroci anni settanta) fu il mio Preside in un liceo scientifico.
In seconda liceo ci insegnò filosofia una bella giovane bionda, poco più vecchia di noi, che si occupò anche , guidata dal Preside Omodeo , uno spettacolo teatrale al Municipale riaperto per noi per pochi giorni, e in cui ammirammo Gioconda Azzi, che attraversava la scena con una candela in mano, recitando il delirio di lady Macbeth. Quell’insegnante morì giovanissima, di polmonite fulminante, si disse allora, ma oggi penso al mesotelioma.
Il terzo anno venne da Alessandria un bravissimo professore di storia: ricordo che prendevamo appunti furiosamente durante tutte le sue lezioni.
Stranamente , la presenza più protettiva, più continua in quegli anni fu quella del bidello Pagliolico, un veneto abbastanza anziano, grande e grosso, a cui ognuno di noi ricorreva quando aveva qualche problema, qualche malessere, a volte perfino la paura di un’interrogazione. Aveva perduto un figlio tra i partigiani, e allora penso che si sentisse un po’ come il padre di tutti noi, in dovere di proteggerci e di aiutarci.
Ricordo anche le insegnanti di ginnastica , dalla signora Mantelli che ci descriveva gli anni che aveva trascorso all’accademia Ginnica in Toscana, alla Cavasonza che ci faceva giocare a pallacanestro, e di cui anni dopo diventai amica perchè amiche mie erano le sue sorelle, amico era suo fratello che avrebbe sposato più tardi una mia compagna di classe.
Ma come dimenticare la presenza più colta, calda, continua e autorevole di quegli anni, don Leandro Rota, che era anche parroco di Sant’Ilario? Ancora oggi ricordo a memoria “La Pentecoste” del Manzoni che ci fece studiare per illustrarcela fin dalla quarta Ginnasio. Oltre che un professore di religione era un letterato e un filosofo che si faceva amare e rispettare. A lui rimasi sempre abbastanza legata, tanto che andavo a volte a trovarlo, anche più tardi, nella sua parrocchia, sia quando facevo l’Università, sia quando, appena laureata, me ne andai a Parigi e a Londra, dove studiai per un po’ l’inglese. Fu lui ad imprestarmi la Guide Bleu di Parigi, che al ritorno gli restituii a malincuore.
E la Maturità? Qualche volta vedo ancora in sogno il lungo corridoio dalle pareti verde chiaro in cui sistemarono i banchi per l’esame. Naturalmente per gli scritti di latino e greco mi piazzarono nel primo banco e accanto a me stava seduta la prof. Rabagliati che ci sorvegliava. Ma i nostri sistemi erano semplici: mi spostavo leggermente verso di lei, e grazie agli occhi prensili di chi mi stava dietro la traduzione arrivava più o meno ben copiata fino all’ultima fila.
Dopo il viaggio in Inghilterra (e chi mi aveva trovato la pensione a Hampstead, dove abitai per un mese, se non la mitica Cavallotti che mi aveva insegnato inglese per due anni, come si usava allora, ma così bene che ero riuscita a conversare con i sudafricani arrivati a Casale nel dopoguerra?) tornai ad abitare a Torino, da cui ero partita quando non avevo ancora quattro anni. Ma subito ripresi a viaggiare in senso contrario a quello degli anni universitari: per un anno insegnai in una quinta ginnasio, trovandomi improvvisamente collega di quelli che erano stati i miei prof.
- Dacci del tu,-mi dicevano alcuni. ma non era così facile come darlo alle nuove colleghe che viaggiavano con me da Torino.
Adesso avrei qualche timore ad aggirarmi per quelle aule che hanno condizionato una parte così importante della mia vita: mi vedrei circondata dai volti dei miei compagni, anche quelli che non ho visto mai più.
Elena Cappellano
PIOPPI e hai l’aria lieta perchè quel giorno
Dalle foglie dei pioppi in primavera avanzata si staccava una lanugine che faceva prudere il naso.
L’ho ricordato quando, qualche mese fa, sono comparse su Il Monferrato le notizie sulla collaborazione fra Casale e Syiang (non ci avevo pensato quando ero passata da quelle parti, eppure i pioppi dovevo averli visti).
I pioppeti intorno a Casale erano numerosi, importanti e ben curati. Su uno degli ultimi numeri del Monferrato, che sfortunatamente non ho conservato, appare la foto di uno di quelli dei nostri giorni, in cui pare che vengano rivalutati e seguiti con cura particolare.
Noi ci eravamo andati più di una volta in bicicletta, quando abitavo ancora a Casale, all’inizio degli anni cinquanta. Allora era ancora bellissimo allontanarsi dalla città pedalando, nelle giornate primaverili. Si arrivava in qualcuno dei paesi circostanti, si posavano le bici e si chiacchierava seduti sull’erba.
Anche nei pressi di Frassineto eravamo arrivati, là dove c’erano i bei fusti alti dei pioppi dell’Istituto Nazionale per la pioppicoltura.
Ho ritrovato alcune fotografie di quei giorni, quando avevamo tutta la vita aperta davanti. In una di esse, Pio Balbo si arrampica tutto allegro su un tronco, e mi appoggia una mano sulla testa. Una mia ex compagna di liceo, di cui ricordo il cognome, Rosati, posa sorridendo tenendo le mani nelle tasche della giacchetta.
I nostri vestiti erano modesti e così semplici, che oggi la mia nipotina se ne vergognerebbe. La maglia che indosso nella foto l’avevo lavorata io ai ferri e la gonna era stata ricavata da un paio di pantaloni di mio padre.
Il dott, Sekawin in mezzo a noi appare molto più elegante e ha l’aria lieta perchè quel giorno il nostro giro è approdato lì, ad ammirare la piantagione dei pioppi. Noi ragazze eravamo giovani e probabilmente abbastanza sciocche, anche se io amavo le poesie, ne scrivevo e niente mi piaceva di più.
Era l’epoca in cui studiavamo - Le tremule foglie dei pioppi - percorre una gioia leggera- e forse la stessa gioia percorreva i cuori di noi ragazze - e anche di Pio, che incontravamo spesso in quegli anni i quali adesso costituiscono l’oggetto del nostro rimpianto.
Ho letto che pochi anni dopo quel pioppeto passò alle Cartiere Burgo.
Negli anni in cui, da pochissimo laureata, insegnavo Latino e Greco al liceo Sacro Cuore di Torino, mi ritrovai in classe le due figlie del proprietario della cartiera. Ma non avevano voglia di studiare e io, come tutti i neofiti, ero molto severa...
Elena Cappellano
PALLI PER ME
Per me bambina il nome, ma solo il nome, è sempre stato familiare in molti settori: prima di tutto il campo sportivo, in cui preparavamo il saggio finale di ginnastica, tante divise bianche e nere, con i cerchi, con le clavette. Ci muovevamo a ritmo, compivamo dei giri complicati per formare dei disegni e delle parole. Dall’alto pendevano i ritratti giganti di Mussolini, a cui ricordo che il mio sussidiario di seconda elementare attribuiva addirittura dei miracoli, come la parola ritrovata da un bambino muto, in mezzo alla folla plaudente. Ma del raid di Palli con D’Annunzio nessuno ci parlava, eravamo troppo piccole.
Poi, il nome del campo d’aviazione: quello sapevamo che c’era, ma si trovava fuori di città, e noi al massimo arrivavamo a piantare gli alberi alla Cittadella in Aprile.
Più tardi, il nome del Liceo: ma, appunto, era un nome e nessuno ci spiegava perché si chiamasse così. Erano tempi duri, di allarmi e bombe, di processi al CLN a cui apparteneva il padre della mia compagna Renata. Tempi di traslochi al Trevisio, dove nessuno ci parlò di uno che non si chiamava, in quei giorni, Pavese.
Anche una breve via, verso Piazza Castello, portava quel nome.
Ma ero già fuori dal Liceo quando un amico mi fece salire in una stanza al primo piano, in fondo al Chiostro di Santa Croce, che oggi, meravigliosamente restaurato, accoglie i visitatori del Museo e della Gipsoteca.
In mezzo a una stanza polverosa vidi un aereo che mi parve piccolo ed esile, messo un po’ a sghimbescio (io non avevo mai coltivato la passione per gli aerei comune a tanti miei compagni di scuola e di giochi) – E’ l’aereo di Palli,- ridisse l’amico.
I libri e gli articoli, li ho letti tutti dopo.
Elena Cappellano
MONFERRATO IN AUSTRALIA
“’d Casà c’a son”.
Faceva battere il cuore ascoltare le conversazioni in casalese-monferrino davanti alle Vele, la grande costruzione divenuta simbolo di Sydney, oppure avventurandoci a mangiare bistecche di canguro, o fette di coccodrillo impanato nei ristorantini dei Rocks che circondano il porto sull’ampia baia .
La delegazione italiana per la Convention dei Lions era ospitata nel bell’albergo Intercontinental (un grattacielo fatto crescere fino al trentesimo piano al di sopra dell’originario Ufficio del Tesoro, costruito nell’800 nello stile inglese di due secoli prima sulla Macquarie Street, proprio davanti allo splendido Giardino Botanico). Sulle aiuole si leggono dei cartelli: Calpestate l’erba , per favore:la farete vivere. Il giardino, immenso, termina appunto davanti allo stupendo Teatro dell’Opera. Mi sono recata a un concerto, bello e carissimo, e ho scoperto che il Direttore stabile è un piemontese che si chiama Manacorda -ma non è un nome di Casale?- che ha studiato al Conservatorio di Torino.
Dai rami di alcuni grandi alberi del Giardino Botanico verso l’imbrunire partono, quasi oscurando il cielo, quelle che a Sydney chiamano le volpi volanti. Sì, saranno un po’ più grandi, ma sono in definitiva dei pipistrelli e a me hanno rammentato la mia infanzia a Casale, con i voli serali dei pipistrelli, appunto, intorno agli undici campanili che si vedevano dalla finestra della mia cucina. Durante la giornata dormivano negli incavi, come quelli in cui scorrevano le persiane delle finestre di casa mia. Ogni tanto uno si sbagliava, e accadeva che girasse come impazzito per la stanza.
Noi cinque monferrini ci tenevano uniti i ricordi: - Beh, dicevamo, in fondo noi abbiamo sempre mangiato i pescigatto e le rane, particolarmente durante la guerra! - E giù i ricordi delle risaie che il nonno del Governatore Tavano, che è di Crescentino, aveva creato nelle sue proprietà a mano a mano che le acquisiva. E poi i ricordi delle chiese monferrine che lui aveva sempre studiato in modo particolare, delle vie e delle colline, mentre salivamo verso le Blue Mountains, o al di sopra dell’immensa foresta pluviale. Anche attraverso questa ci siamo inoltrati su un sentiero, fermandoci di fronte alle imboccature delle miniere che inevitabilmente ci riportavano con il pensiero alle cave delle nostre colline.
Lions di tutto il mondo si sono riuniti per i quattro giorni della Convention. La sfilata che partiva dal Centro Congressi e arrivava alle Vele è durata più di due ore, nel freddo frizzante dell’inverno australiano che evidentemente a luglio è nel suo pieno, e la Delegazione Italiana ha riportato il primo premio.
Ma i rapporti fra noi monferrini si sono fatti più stretti durante il viaggio che un gruppo di italiani ha compiuto nei giorni successivi. Noi cinque ci compiacevamo di accentuare la nostra pronuncia. Più paterno di tutti era il mio Governatore Tavano, sempre pronto a citare i monumenti e le chiese del suo paese, dove risiede anche se lavora a Vercelli. Con Vaccarone che era stato Governatore del Distretto vicino al nostro, abbiamo perfino giocato a carte in un pomeriggio in cui scrosciava la pioggia ad Ayers Rock, contro le finestre su cui avrebbe dovuto battere il sole.
Elena Cappellano
IL SUDAFRICA A CASALE NEL DOPOGUERRA
Springbock si chiamava il presidio sudafricano che si stanziò per qualche mese a Casale al termine della guerra.
Dalla finestra della mia cucina (quella dove cuocevo il pane nel forno blu) che si affacciava su piazza Rattazzi avevamo assistito a parecchie delle scene che avevano caratterizzato per noi il periodo del conflitto: quella che mi aveva colpita di più era stata la visione delle piramidi di fucili tedeschi, dopo la breve ubriacatura dell’8 settembre al grido di “si torna alla magione!” dei giovani soldati che credevano la guerra fosse finita.
I gruppi di soldati biondi in divisa mimetica avevano preceduto di alcuni mesi sulla piazza i ripetuti fuggi fuggi al passaggio dei camion tedeschi scoperti su cui venivano fatti salire a forza gli studenti al ritorno dalla scuola, per mandarli in Germania a lavorare (dicevano), e poi il 25 Aprile di due anni dopo i canti che avevano segnato (questa volta per davvero) la fine della guerra.
Fu allora che in città arrivarono i Sudafricani. Belli, eleganti, gli ufficiali, che elessero a loro centro preferito di riunione la Filarmonica di Palazzo Treville, offrendo ogni pomeriggio dei tè, ambitissimi da tutta la borghesia casalese appena reduce dalle ristrettezze belliche. in quei mesi, e ancora per un paio d’anni, le tessere annonarie continuarono ad essere in vigore.
Musica, anche balli pomeridiani e serali, per tutti coloro che in quegli anni erano stati costretti ad ignorarli.
Il Colonnello Leporati, padre di una mia bella compagna di scuola, processato a Torino col CLN e condannato all’ergastolo, era uscito in Aprile dal carcere di Aosta.. Renata e Giuseppina, le più grandi dei suoi cinque figli, esprimevano il loro sollievo e la loro gioia frequentando assiduamente i balli pomeridiani della Filarmonica. Io le incontravo e le guardavo intimidita e ammirata.
Poi alla Filarmonica andai anch’io, naturalmente con i miei , ai tè del pomeriggio, come tutta l’altra Casale bene, educatamente affamata. Fu in quel periodo che la Società di Palazzo Treville registrò il più alto numero di iscrizioni.
In Ginnasio avevo studiato inglese per due anni con la professoressa Cavallotti, ed ero ansiosa di mettere a prova le mie capacità. Per questo ai Giardini Pubblici, mentre ero con i miei e con i loro amici, incominciavo a tendere l’orecchio ai discorsi dei militari che passavano - alla Filarmonica andavano, naturalmente, solo gli ufficiali - e scoprii che qualche parola la capivo.
Vicino alla stazione abitava una mia compagna che si chiamava Albertina Libero. Quando la vidi appoggiata, insieme alla sorella minore, al cancello di casa, intenta a cercare di comunicare con un militare non giovanissimo, in divisa kaki, mi avvicinai, sempre assieme ai miei, e gli rivolsi la parola con l’inevitabile: -Whence do you come? -
Gli si illuminò la faccia e rispose subito gentilmente che arrivava da Durban, in Sudafrica, e che la nostra era una bellissima città. Peccato quei tetti bianchi...
Fu così che mi buttai a fungere da interprete fra lui e il nostro gruppo: si chiamava George Root, era engeneer (non sapevo ancora che significasse anche meccanico), veniva da Durban,era appassionato di tennis. Finì che combinammo di andare tutti quanti insieme l’indomani al Cinema Vittoria a vedere “La famiglia Sullivan”. Mio padre e il signore suo amico comprarono i biglietti e allora Root, che li aveva già presi per tutti, strappò i suoi. La cosa stupì molto tutti noi, che uscivamo da anni di fame. Ricordo che io portavo le scarpe da ginnastica che allora erano un segno di età scolare, quasi infantile, e che alternavo agli zoccoletti di legno del tempo di guerra. ancora lontana la moda attuale che le fa indossare a tutti.
Per i soldati il luogo d’incontro era il dancing del Bar della stazione, dove imperversava il ritmo di Rosamunda. Fu lì che imparai più o meno a ballare, prima delle serate alla Filarmonica, dove incominciavano a recarsi la sera i miei genitori, che erano giovani.
Il mio amico Giandomenico Pugno, che il pomeriggio ai Giardini Pubblici continuava a parlarmi di filosofia, e lo faceva anche camminando per la sala della Filarmonica quando faceva finta di ballare, aveva una cugina che si chiamava Fernanda. A lei fece una corte molto serrata un giovane ufficiale della Springbock
. Avevano incominciato conversando in latino che evidentemente si insegnava anche laggiù, e lei lo sposò per procura, dopo che era tornato in Sudafrica. Questi casi allora erano abbastanza frequenti.
- E’ partita con una giacchetta rossa - ricordo che concludeva il racconto sua madre. Pare che il matrimonio sia stato felice.
Tutte queste immagini mi si riversano come una marea nella memoria, ora che del Sudafrica si parla tanto per via dei Mondiali di Calcio.
Tempo fa, avevo dedicato a queste cose un capitolo di un mio libro su Casale, che avevo intitolato “Il Talento”.
Elena Cappellano
SUL TRENO PER CASALE
Ho accennato più di una volta ai miei viaggi da Casale a Torino. Posso dire che in quei giorni il treno di quella linea, in modo simile a quanto raccontato da Olmi nel suo bel vecchio film “Il posto“ era diventato per me una sorta di casa-studio. quanti esami preparati, o almeno ripassati, su quei sedili di legno da dopoguerra!
Ritornata dopo la laurea ad abitare a Torino, che in fondo è la mia città natale, un incarico annuale al Liceo Balbo mi ha immediatamente fatto ripercorrere la linea in senso inverso.
E le amicizie,evidentemente, sono state di tutt’altro tipo: al mattino gli insegnanti arrivavano a Casale da cui gli studenti erano partiti un paio d’ore prima.
Ferrovia, di nuovo.
Nuove amicizie: Eugenia Massa, che anni dopo sarebbe diventata il terrore Latino e Greco del liceo Cavour di Torino, ma era una delle persone più buone e oneste che io abbia mai conosciuto. Il filosofo Cecchini, bello e biondo, che sarebbe passato a insegnare all’Università.
E soprattutto Enrica Volante Borgo, che aveva vent’anni più di me, e con la quale in quell’anno di viaggi nacque un’amicizia che sarebbe durata per tutta la sua vita, piena di interessi e di attività.
Si discuteva di tante cose , su quel treno. Si commentavano i processi in corso (il caso Montesi, ad esempio, appassionava quell’anno gli italiani), si parlava di politica.
Enrica, aveva sposato un industriale che si era ammalato gravemente molto giovane. Lei non si era certo persa di coraggio: aveva rispolverato la sua laurea in lettere, del resto abbastanza recente, aveva passato i concorsi, si era messa ad insegnare, e soprattutto aveva continuato la tradizione socialista nella quale era stata allevata.
A questo proposito mi parlava spesso - con l sua voce rimasta un po’ roca, perchè era stata operata, bambina cinquenne, in modo assai traumatico, per una grave forma di difterite. Mi raccontava: il medico per salvarmi mi ha tracheotomizzata e ha aspirato il velo che copriva la laringe. E mi mostrava una profonda cicatrice ancora visibilissima.
Molte volte il discorso verteva su sua madre, di cui si mostrava molto orgogliosa e alla quale aveva votato un’ammirazione incondizionata: - Ha fondato scuole, ha rinnovato la didattica per l’infanzia, la si può considerare sul piano della Montessori e di Froebel, è stata insomma una donna eccezionale in tutto.- Per tutta la vita Enrica cercò di imitarla e di esserne degna in tutto. Fu a casa sua che conobbi molti personaggi della cultura piemontese di quegli anni. Fu lei a farmi conoscere ed ascoltare Franco Antonicelli, Norberto Bobbio. fu lei a far sorgere a Torino la prima Associazione Italiana dei professori di Storia, che ebbe sede per anni nell’Accademia Albertina sotto la presidenza di Baudi di Vesme, e con la partecipazione di Raimondo Luraghi, di Cardellino, e di molti altri bei nomi della cultura torinese.
Tutte queste cose, e molte altre ancora mi tornavano alla mente la settimana scorsa durante la presentazione di un bel libro su sua madre, Lina Borgo Guenna.
La vita di questa donna eccezionale si era svolta fra novi Ligure, Alessandria ed Asti, tutti centri che da Casale ho conosciuto abbastanza bene. Asti negli ultimi anni più delle altre, perchè da Montemagno la raggiungevo spesso.
Ho imparato a conoscere le vicende di queste città in cui questa donna generosa e fortissima fondò istituti e scuole per l’infanzia, sempre con un’impostazione decisamente laica, rinnovando completamente la didattica relativa alla prima fascia di età.
L’epoca in cui visse ed agì nel campo dell’istruzione era quella in cui si ampliava l’accesso alla scolarità, per la formazione di una nuova classe dirigente, era ancora quella della frizione tra Stato e Chiesa, fra laicità e cattolicità.
Lina Borgo si adoperò per l’attivazione degli asili-nido, degli Asili, dei convitti maschili e femminili, degli Orfanotrofi, dell’istruzione professionale, della costruzione di case popolari, soprattutto, come detto, nella città di Asti.
Le Autrici del volume “Lina Borgo Guenna - Un’esperienza educativa laica” sono Agnese Argenta, Graziella Gaballo, Laurana Lajolo, Luciana Ziruolo, e hanno condotto le loro ricerche per lo più su documenti inediti. Passò da Novi ad Alessandria, ed ebbe nove figli, pur continuando a svolgere un lavoro particolarmente gravoso (Enrica era la minore).
Rimasta vedova giovane, si trasferì a dirigere l’asilo laico di Asti (la città conserva su di lei un cospicuo fondo documentario) che venne dapprima intitolato a Francisco Ferrer. In seguito riuscì a coinvolgere amministratori, responsabili del Comune, imprenditori, benefattori e famiglie operaie.
Organizzò un orfanotrofio durante e dopo la prima Guerra Mondiale. Formò i bambini alla disciplina della mente nell’ambito di un pensiero laico e progressista fortemente influenzato dai valori Risorgimentali.
Riuscì a convivere con diplomazia coi primi anni del regime dittatoriale.
Morì in ospedale a Torino il 12 Gennaio del 1932, e il suo nome venne dato all’Educatorio di Asti.