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  • 05 gennaio 2008
  • Casale Monferrato

Viaggio nella memoria da piazza Rattazzi

La visione di una foto stampata su "Il Monferrato" (una colonna del portale della Banca San Paolo dove mio padre era direttore) mi rimanda alle sovrastanti finestre da cui mi affacciavo per rispondere ai richiami delle amiche. A sinistra, la chiesetta ormai sconsacrata della Trinità, e al centro le due guide parallele ormai ripristinate nell'aspetto che avevano quando a Casale ero venuta ad abitare: ricordo l'indignazione con cui avevo reagito alle parole di un ciclista che mi aveva urtata e fatta cadere: - Ma non sa che queste piccole sono le strade dei bambini? - Convinzioni perdonabili, a quattro o cinque anni. Certo non avevo più di cinque anni quando andavo compunta a fare le commissioni nei negozi più vicini, come la panetteria di piazza Rattazzi che confezionava dei bellissimi cavallini di pane. Una delle letture che appassionarono di più la mia infanzia furono le fiabe di Andersen che anche oggi fanno sognare i bambini. Mi piaceva in modo particolare un racconto che ormai non compare spesso nelle raccolte: quello su Hjalmar, un bambino che amava sognare su un divano sotto un quadro che rappresentava un bosco, e poco più in là un fiume e una barca ancorata (esiste una tavola di un test psicologico che ho usato professionalmente e che me l'ha sempre ricordato). Ogni sera, per otto giorni, il Dio del Sonno chiudeva gli occhi di Hjalmar e lo faceva penetrare nel quadro, entrare nel bosco, salire sulla barca e remare verso un'avventura ogni volta diversa. La dimensione del sogno è spesso più vera di quella che chiamiamo realtà. La foto vista sul giornale era lì per invitarmi a un viaggio nella memoria, avviandomi per quella via Della Rovere, una delle prime che nella mia vita ho percorso da sola. Alzavo immediatamente gli occhi alle finestre del primo piano, più grandi delle mie che si trovavano al secondo: appartenevano allo studio del dottor Pesce, per cui nutrivo un rispettoso timore, perché mi prescriveva medicine e iniezioni quando ero malata. Pochi passi, e a destra si apre ancora adesso la porta dello studio del Geometra Bruno. Ovviamente quello che ricordo io non c'è più. Salivo non allo studio, ma a trovare sua figlia Pupetta, che era più grande di me, ma con la quale avrei fatto amicizia per via dei pappagallini che schiamazzavano in una voliera su un grande terrazzo che si estendeva al di sotto della finestra di camera mia, verso il cortile. C'era anche un cane che, poveretto, pativa il suono delle campane e lanciava dei lunghi ululati lamentosi ogni volta che queste suonavano. Durante l'occupazione tedesca di Casale capitò più di una volta che da camion che percorrevano le vie del centro scendessero militari armati a requisire ragazzi - studenti per lo più - all'ora dell'uscita dalla scuola, per avviarli a campi di lavoro, dicevano. Non dimenticherò mai le grida della signora Bruno, alta, con i capelli bianchi, che inseguiva il camion su cui con la forza avevano fatto salire il giovane di studio di suo marito: - Lasciatelo andare! E' mio figlio, è solo un ragazzo! - riuscì a creare tanta confusione che il giovanotto saltò fuori aggrappandosi a un lampione di piazza Rattazzi. Il vero figlio, ovviamente, era ancora un bambino. Più avanti, a sinistra, c'è la Chiesa di San Michele: non si può dire "si apre" perché era sempre chiusa. Ricordo in facciata la lingua di un diavolo... Non fui autorizzata, se non dopo i sei anni, ad avventurarmi per il Vicolo Sant'Evasio che sbocca davanti al Duomo. Allora potei entrare nel cortile dei fratelli Maggia, uno dei quali, idraulico e pittore, era quello che più frequentemente veniva da noi e di cui ancora oggi conservo una copia del viso della "Madonna col cardellino" sopra il mio letto. Al fondo della via si apriva una bottega che in me suscitava allora il massimo dell'interesse: la drogheria di Angelino Serafino. Mi sono sempre chiesta quale fosse il nome e quale il cognome Quando riuscivo a racimolare qualche centesimo ero autorizzata a comprare un bastoncino di liquirizia, quella di legno, che succhiavo e masticavo felice ancora prima di uscire dalla bottega. A volte ero incaricata di comprare mezzo chilo di zucchero, che mi veniva consegnato in un cartoccio di carta blu, quella che poi si poteva applicare sui bernoccoli e sui lividi, non infrequenti nei nostri giochi infantili. Non scatole colorate come si vedono oggi, ma tanti grandi sacchi aperti: ceci, fagioli, altri legumi secchi. Anche farina di lino vendeva il buon droghiere, quella con cui si facevano i "papin", cioè gli impiastri da posare quasi bollenti sul petto per far maturare il catarro nei casi di bronchite. Era molto raro che fossi così ricca da potermi comprare le "goccioline", piccoli globi di zucchero nel cui interno c'era una goccia di sciroppo o rosolio. Quello era un luogo che permetteva quei sogni così positivi per la memoria e la fantasia, e oggi negati ai bambini, acquirenti di merendine sul cui involucro non c'è niente di misterioso, ma una fotografia seguita dalla scritta in più lingue. Il negozio si trovava all'inizio di un vicolo (ed era l'ultima apertura della via, anche se non ne ricordo più il nome) in cui durante la guerra, ormai studentessa, penetrai più volte. Attraverso una porticina e una rampa buia di scale salivo nel disordinatissimo (io ho sempre apprezzato molto il disordine) laboratorio del mio vecchio calzolaio, a cui portavo di volta in volta da riparare le scarpe di tutta la famiglia: luce avara, odore di cuoio, di colla e di sudore: la lesina, le forme di metallo, il martello, i chiodi sparsi sul banchetto. Mi fermavo volentieri a parlare con lui, che aveva fatto frequentare il liceo a suo figlio, un ragazzo piccolino e intelligentissimo, che i compagni non chiamavano Vittorio Riposo, ma Vittorino Diavolo, per la sua bravura. Fu lui a procurarmi la mia prima grammatica greca in quegli anni di fine guerra in cui non si stampavano libri. Fu così che io imparai il greco sulla grammatica del Curtius. Mi procurò anche un piccolo vecchio vocabolario di greco, lo Hartmann Kromeyer, che mi ha sempre fatto dire ai miei alunni: più piccolo sarà il vocabolario, meglio imparerete. Ma i poveretti girano ormai con enormi, pesantissimi zaini in cui sono convinti di portare a spasso il sapere. Vittorino Diavolo fu poi assunto al San Paolo e fece una brillante, rapida e, ahimé, breve carriera. Qui si ferma il mio viaggio nella fotografia: una via breve può essere ricca di cose interessanti. Elena Cappellano

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