Il filosofo Armando Massarenti a ''Undicimila verbi'' - Tutto è nato dalla “voce” «Bello».
Sabato 26 febbraio, nell'ambito della rassegna "Undicimila Verbi" curata da Roberto Coaloa, il filosofo Armando Massarenti ha presentato alle Cave di Moleto il suo nuovo libro «Dizionario delle idee non comuni» (Guanda). Con l'autore ne hanno discusso Silvia Agliotti, Roberto Coaloa, Nicola Del Corno e Glauco Tiengo. L’articolo che segue è una testimonianza della serata del nostro collaboratore Coaloa.
«Rappelez-vous l’objet que nous vîmes, mon âme, / Ce beau matin d’été si doux: / Au détour d’un sentier une carogne infâme / Sur un lit semé de cailloux»…
È stato Bernard Glènat, “monferrino” d’adozione, il lettore della celebre poesia «Une charogne» di Charles Baudelaire nella magica notte di Moleto.
Magica perché il numeroso pubblico, che ha assistito alla presentazione del nuovo libro del filosofo Armando Massarenti, «Dizionario delle idee non comuni», si è ritrovato improvvisamente emozionato ed immerso nel mondo della Poesia e del “Nostro”, davvero unico, Monferrato.
Sì, perché le voci del “dizionario” di Massarenti invitano a pensare non solo i profondi temi filosofici, perché, soprattutto, la rassegna letteraria di Moleto cerca sempre di far emergere la magia di un luogo, il Monferrato.
Tutto è nato da una “voce” del dizionario di Massarenti: «Bello».
Il filosofo ha posto un quesito: «A chi, di fronte a una poesia di Baudelaire, non è capitato almeno una volta di esclamare, senza curarsi troppo dell’ingenuità del proprio giudizio: “Splendida”, “Bellissima” o “Meravigliosa”?».
Tutto questo, infatti - ci ha raccontato Massarenti - avviene a dispetto dei temi dei Fiori del male, che rimandano continuamente alla sfera del “brutto”, se non del “ripugnante” e del “disgustoso”. Si prenda una composizione come quella intitolata «Una carogna», in cui il poeta, passeggiando con l’amata, si imbatte in una scena raccapricciante: «Ricordi la cosa che vedemmo, anima mia, una dolce mattina d’estate? / Svoltato un sentiero, su un giaciglio di sassi, / una carogna infame, / a gambe all’aria, simile a una donna impudica, / bruciando, sudando veleni, / spalancava con cinica indolenza / il ventre gonfio di miasmi». Baudelaire continua di questo passo, e ha l’ardire di ricordare che quello è il destino che spetta a noi tutti mortali, e alla sua amata, a cui continua a rivolgersi con tono affettuoso, fino alla (davvero splendida) conclusione: «E allora ai vermi che ti mangeranno / di baci, o mia bellezza, / di’ che in me sono salve la forma, l’essenza divina / dei miei marciti amori!».
“Sublime!” Direbbe Kant. E pensare che questa strofa manca nel manoscritto autografo della poesia, già in possesso del critico inglese Arthur Symons (la strofa compare, quasi per miracolo, isolata, su un altro manoscritto del poeta di Parigi). Qual è il miracolo che, da un così coraggioso immergersi negli abissi dell’obbrobrioso e del ripugnante (e la memoria, mentre Bernard leggeva la poesia di Baudelaire, correva a Théophile Gautier, che nella Comédie de la Mort, immaginava un dialogo fra un cadavere di donna e il verme che la sta divorando), fa sì che emerga qualcosa che rimanda ancora, nonostante tutto, alla sfera della bellezza? E com’è che ancora oggi, anche di fronte a opere d’arte contemporanee che volutamente proprio sul disgusto fondano la propria “poetica”, a qualcuno sfugge comunque sempre il più semplice e immediato dei giudizi: «Bello»? Tra le diverse risposte che i filosofi hanno dato a questa domanda la più persistente è quella che nel definire il bello - suggerisce Massarenti citando Remo Bodei – parla di ordine, di misura, di calcolabilità, e di rigorosa corrispondenza tra le parti di un insieme. Su questo sfondo è nata la visione di una indissolubile trinità tra buono, bello e vero, che nelle sue diverse versioni – pitagorica, platonica, plotiniana – ha dominato l’intera storia della filosofia, lasciando tracce anche nella riflessione contemporanea. Persino Baudelaire, emblema di un cambiamento radicale nella storia del gusto, afferma che «l’assenza completa del giusto e del vero in arte equivale all’assenza d’arte». Liberarsi degli aspetti morali e conoscitivi insiti nella produzione del bello è dunque più difficile di quanto poteva sembrare dopo le rivoluzioni degli ultimi due secoli, e probabilmente non è neppure auspicabile. Però, mentre la visione tradizionale, con la sua insistenza sull’armonia e la forma, sia essa pittorica o musicale, era tutta incentrata sui due sensi “pubblici” per eccellenza, la vista e l’udito, facilmente traducibili dall’intelletto, a partire soprattutto dal Sei-Settecento si è fatta strada una maggiore attenzione verso sensi più soggettivi e vaghi come il gusto, l’odorato e il tatto, e insieme a essi prende piede l’apprezzamento per l’indistinto, il “non so che”, l’imponderabile. In una parola, per la sensazione, cui il termine “estetica” direttamente rimanda. A un certo punto potremo così trovare le “corrispondenze” di Baudelaire che, grazie alla cura rigorosa della forma, compie il “miracolo” della trasformazione del brutto in nuove più autentiche forme di bellezza.
Questo in sintesi il fitto dialogo che si è svolto a Moleto intorno alla definizione di «Bello».
Il dizionario di Massarenti è simile nella sua originalità a un’opera postuma di Samuel Butler (autore britannico che il sottoscritto ha spesso citato nella serata di Moleto, essendo legato alle memorie storiche del Monferrato, al Santuario di Crea, all’avventura del Risorgimento). Ogni dizionario che si rispetti è fatto di «definizioni», e definire «significa rinchiudere la sconfinata foresta dell’idea in un muro di parole». A Samuel Butler, autore di quest’aforisma, è però toccato di ritrovarsi autore solo post mortem di un Dizionario dei luoghi non comuni scelti dai suoi taccuini. Neppure Armando Massarenti (responsabile della pagina "Scienza e filosofia" del supplemento culturale Il Sole-24 Ore Domenica, dove si occupa, dal 1986, di storia e filosofia della scienza) avrebbe mai pensato di comporre un Dizionario, sia pure sui generis come questo, se non lo avesse trovato già scritto ripercorrendo a ritroso il suo avventurarsi nella foresta, talvolta fittissima e irta d’ostacoli, delle idee che hanno animato il dibattito culturale degli ultimi anni.
Nel ricordo di Buler e di Baudelaire è terminata la magica soirée di Moleto.
Tra l’attento pubblico della serata erano presenti due editori monferrini: Lorenzo Fornaca e Klaus Renner. Il primo ha omaggiato gli ospiti venuti da Milano e Torino con le sue opere dedicate al Monferrato e ha indotto il sottoscritto a raccontare qualche aneddoto sul conte Aldo di Ricaldone, così legato alle memorie del piccolo borgo saraceno. Il secondo (editore tedesco che ha trovato il suo paradisiaco buen retiro a Ottiglio), è l’amico che ispirò il titolo della rassegna «Undicimila Verbi» di Moleto. Con loro si è conclusa la serata, così come iniziò la mia amicizia, dieci anni fa, con Bernard Glènat in questo piccolo ma bellissimo borgo di Moleto. Ascoltando Glenn Gould che interpreta i Deux Morceaux (Désir e Caresse dansée, op. 57) di Scriabin. Bella serata davvero, condivisa con un numeroso pubblico, bevendo un ottimo passito locale, «l’oro dei saraceni».
E come dice Bernard, quando degusta il vino del nostro Monferrato: «A Moleto, ne sono sicuro, il buon flâneur è al riparo dall’atroce bêtise umana». Ottima filosofia di vita.
Roberto Coaloa