«Nel 1964 Davide Lajolo denunciò
il rischio-mesotelioma sull’Unità». Lo ha detto Gianni Turino - giornalista e scrittore casalese - oggi in aula al Processo Eternit
di Massimiliano Francia
«L’Eternit dava due sicurezze: una era quella economica, l’altra era quella di andare a finire prima in via Negri... al cimitero...».
È uno dei passaggi della deposizione di Gianni Turino, ronzonese doc, nato e cresciuto al Rotondino, che la polvere e l’amianto l’ha vista, vissuta, respirata, praticamente insieme al latte nel biberon, se l’è trovata a «scricchiolare» sotto i denti quando - per tanto che si lavasse - mangiava l’uva o i pomodori raccolti (o forse fregati!) da «gagno» negli orti del quartiere. «Per questo ogni tanto le discussioni sugli svizzeri e i belgi», i padroni dell’Eternit, si facevano «animate e spuntava qualche epiteto pesante ... Bastàrd...».
Una deposizione col tocco dell’affabulatore, a fil di voce per la raucedine, con l’aula che si è fatta silenziosa per ascoltare quel «ragazzo del Ronzone» che ha ricordato che «tutte le mattine nel quartiere c’erano due o tre dita di pulviscono... L’ho scritto ricordando purtroppo un sacco di gente...».
A voler scavare, come ha fatto Turino, nei suoi begli articoli e nel suo libro - Eravamo tutti ricchi di sogni (pubblicato dall’editrice «Il Monferrato» e acquisito ieri agli atti dell’inchiesta) a voler scavare sotto la polvere - verrebbe da dire - le storie saltano fuori, ma si vede bene anche il filo rosso che accomuna la sorte di tanti, tantissimi di quelli del Rotondino che se ne sono andati: quella polvere maledetta che l’Eternit - ha raccontato Turino- buttava fuori con dei ventoloni che pescavano l’aria da dentro e la sputavano fuori «a uso e consumo della comunità... Non per niente gli inglesi e gli americani chiamavano Casale “la città bianca”».
Oppure con i mezzi che andavano su e giù tutto il giorno pieni di rottami a scaricarli lungo il Po: «E il polverino che non si respirava prima, finiva nella discarica con i ritagli o nelle strade o nei solai per isolare dal freddo...», ha spiegato Turino rispondendo a un domanda del pm Raffaele Guariniello che gli chiedeva cosa facesse l’Eternit degli scarti di lavorazione.
Sulla discarica col tempo è cresciuto un pezzo di città: «Da dove scorreva il Po a dove scorre adesso ci sono 700-800 metri. E sopra ci hanno fatto quattro campi da calcio, un supermercato e la pista ciclabile. Fa ridere oggi quando chiedono le perizie per individuare i posti in cui c’è l’amianto. Bisognerebbe chiedere perizie per individuare quelli in cui non c’è...».
«Col motocarro il Pietro Lombardi andava su e giù tutto il giorno, otto ore al giorno tutti i giorni dell’anno», caricava i rottami e il polverino col badile e poi lo ribaltava lungo il Po «dove noi ragazzini andavamo a giocare».
In riva al Po arrivavano anche i «ruscelli dell’Eternit», canali che portavano le acque reflue della fabbrica, una melma che produceva vere e proprie «sabbie mobili che erano pericolose e dove ci sono stati diversi incidenti, anche se non mortali...».
Se l’amianto non te lo trovavi al lungo il Po finivi per beccartelo all’oratorio (come è successo al Duomo) o all’asilo (come al Cova), nel cortile di casa, negli stradini di campagna degli orti... Insomma non c’era quasi scampo. «Il polverino si bagnava per farlo diventare duro, ma diventava duro solo il cemento e l’amianto andava in giro e si respirava...».
Poi a Casale hanno fatto l’impianto di frantumazione e allora - apriti cielo - arrivavano gli scarti di tutta l’Italia.
Turino che lavorava per un cementificio li ha visti partire da Siracusa «dove avevano fatto, non so come fosse stato possibile, lo stabilimento nel primo insediamento greco d’Occidente».
Arrivavano a Casale i camion e li scaricavano all’ex Piemontese, poi senza alcuna precauzione gli addetti ci salivano sopra con dei mezzi dotati di cingoli e lo sminuzzavano. Di lì finiva al mulino Hazemag.
«Hanno scaricato milioni di tonnellate di materiale e adesso hanno fatto le analisi e ci hanno detto che non ce n’è più; io l’ho scritto: “Allora diteci dov’è finito...”».
La denuncia di Lajolo
Turino ieri al processo che vede imputati lo svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de la Marchienne - accusati dalla Procura di Torino di disastro doloso permanente e inosservanza delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro - ha raccontato altri due episodi significativi, non dell’epopea del Rotondino e del Ronzone, ma di una inchiesta fatta da Davide Lajolo su «L’Unità» nel 1964 in cui si parlava del tumore al polmone e lo si chiamava «mesotelioma».
Lo stesso anno della Conferenza di New York, quella in cui il medico americano Irving Selikoff dice tutto sul rischio amianto, compresa l’esposizione ambientale.
Articoli che Lajolo scrisse su Casale e su Broni - ha evidenziato Turino - posti dai quali quando arrivava un paziente - diceva il professor Moncalvo dell’Università di Pavia - si poteva già fare la diagnosi... Pensavo che con quegli articoli succedesse il finimondo, e invece...».
Cosa significa «il finimondo?», gli ha chiesto il presidente del tribunale Giuseppe Casalbore.
«Era tutto così evidente e detto in modo così autorevole che credevo che avrebbe dovuto produrre la conseguenza di affrontare il problema e obbligare la società ad adottare misure di sicurezza...».
E poi - ancora nel 1967 - Turino partecipa alla trattativa nazionale per il rinnovo del contratto di settore, e pone la questione del mesotelioma perché i dipendenti di Eternit e Fibronit - che erano i veri interessati - «a buon titolo» temevano che se lo avessero fatto loro ci sarebbero state ritorsioni: «Allora esposi il problema e il direttore generale dell’Eternit disse rivolto a me: “Ma cosa vuole quella faccia di merda...”?».
«Se ne fece una mozione che però non entrò nel contratto; il problema però era conosciuto, era pacifico...».
Così - ha spiegato Turino - il finimondo non ci fu, lo stabilimento nuovo che avrebbe dovuto consentire lavorazioni amianto-free non si fece mai perché anche se l’Eternit guadagnò una fortuna «con un prodotto a bassa tecnologia, a basso costo e con una resa immensa.
«Perhcé la nuova tecnologia» non avrebbe reso abbastanza...