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  • 12 dicembre 2008
  • Casale Monferrato

"Gattopardo", Chevalley ricorda con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale”

Sul finire del 1958 usciva presso Feltrinelli, su iniziativa di Giorgio Bassani, un romanzo singolare già rifiutato da Vittorini, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il successo fu straordinario, e ancor più all’estero che in Italia, dove la critica lo guardò con qualche perplessità, soffermandosi sulle tendenze ideologiche e politiche più che sul valore artistico. Su questa discutibile “prudenza” di giudizio nei confronti di un autentico capolavoro influiva certo il fatto che il romanzo fosse l’opera prima, per di più postuma, di un autore sessantenne, vissuto sempre al di fuori di precise correnti culturali. Purtroppo anche oggi, in occasione dell’importante anniversario, nell’Italia letteraria (e giornalistica) la celebrazione ci pare sia avvenuta un po’ in sordina e lenta rispetto ad altri paesi. Forse a questo “ritardo” o limite nell’esaminare oculatamente e schiettamente il romanzo dobbiamo ascrivere la lunga noncuranza da parte monferrina nel seguire le orme del Gattopardo a Casale? E’ stata una sorpresa - e un sussulto - per molti di noi l’apprendere, grazie alle ricerche dello storico Roberto Coaloa (“il Monferrato del 18 gennaio 2008, a pagina 21, ndr.) , continuate da Dionigi Roggero e Luigi Angelino, che Tomasi era stato uno dei tanti militari passati nella caserma della nostra città (nell’anno 1919, ndr, in un reggimento di artiglieria, stanziato probabilmente al casermone). Perchè non ci eravamo domandato con serenità di studiosi e cittadini come mai lo scrittore avesse scelto proprio il toponimo di Casale per indicare il luogo di provenienza del personaggio di Aimone Chevalley, funzionario sabaudo; come mai mostrasse di conoscere così puntualmente il “tipo” o il carattere di un “segretario della prefettura piemontese”? Chevalley viene descritto come “onesto, zelante e persona dabbene”, “timido”, “compito... secondo la puntigliosa cortesia piemontese”, “galantuomo pur nella tendenza un po’ burocratica”, riservato ma “comprensivo delle pene altrui”. E’ un ritratto tracciato finemente e con simpatia umana, nonostante la consueta ironia dello scrittore, acuta e benevola al tempo stesso. Il funzionario si muove circospetto e quasi in difesa, “col sorrisetto guardingo”, sentendoci fuori luogo in un mondo come quello siciliano così diverso dalla sua formazione e mentalità: da un lato vede opulenza in disfacimento e dall’altro disordine, miseria e inerzia. Infine è logico che lasci il palazzo del principe rafforzato nella sua “lenta solidità di piemontese”, e ricordi “con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale”! E’ logico che di fronte a quella fatalistica rinuncia ad un tentativo di redenzione ripensi al suo paesello come a “un luogo mediocre ma sereno e vivente”! Il colloquio col principe Fabrizio, cardine della meditazione storica dello scrittore, si svolge in una località immaginaria, Donnafugata, mentre sono reali molti luoghi e percorsi ricordati dal romanzo, in una Palermo oppressa dalla calura e dal peso di troppe dominazioni. Mi trovai per caso a percorrere, quasi puntigliosamente, le orme del Gattopardo in anni giovanili, quando, in vacanze estive a Stromboli, decisi di seguire le indicazioni di uno studente nipote del parrocco dell’isola, don Antonino, per cercare, lungo la via palermitana dei conventi, nuovo materiale per la mia tesi su “ll teatro sacro del seicento”. Da Lipari in aliscafo a Messina, e poi in treno a Palermo, catapultata dall’atmosfera mitica delle Eolie in una città assolata e sonnolenta nel primo meriggio! Ed ecco subito sulla sinistra della stazione la via Maqueda del romanzo, da percorrere fino alla Casa Professa, al convento della Compagnia del Gesù “alle cui porte bussò confuso” il personaggio di Padre Pirrone (e vi bussai anch’io per le mie ricerche!). Il convento, restaurato nel 1956 dopo devastazioni belliche, si presentò in tutto lo splendore del pesante e trionfale barocco siciliano, immerso in quel “sonno che assomigliava al nulla” che ci richiama la tipica atmosfera gattopardesca; alle sue spalle ecco il rito teatrale del popolare mercato di Ballarò. Poi deviando a destra verso la Marina, la piazza del San Domenico, e qui purtroppo era stato demolito per ristrutturazione urbanistica il palazzo Monteleone, dove nel romanzo avviene la grandiosa festa del fidanzamento tra Tancredi ed Angelica immortalata dal film di Visconti. Poco dopo verso il mare la famosa via Butera, tutta gattopardesca, dove era in rovina il vecchio palazzo caro alla famiglia Lampedusa (se ne parla proprio durante il colloquio con Chevalley) e poi palazzo Aceto, ultima bella dimora del nobile Tomasi. Questi e altri luoghi, rimasti vivi nonostante incurie e demolizioni, furono per me in quei giorni illuminati dalla scoperta fortunosa fi vecchi testi: autori tra l’altro ben presenti nella cultura e nella sensibilità dello scrittore siciliano, quali il drammatico gesuita Ortensio Scammaca e l’eloquente padre Bartoli. Tutto mi sembrò una trascrizione reale e simbolica di un capolavoro che mi aveva sempre affascinata. E oggi “rileggendo” la figura e la funzione precisa del personaggio Chevally mi è facile pensare che proprio qui a Casale il giovane militare Tomasi, di fronte alla “solidità” monferrina e al nostro caparbio e semplice attivismo, abbia chiarito a se stesso la visione della problematica storica ed umana della sua terra, che abbia quindi lasciato anche da noi, al di là di tracce spicciole e transitorie, un segno profondo del suo passaggio. Giuse Vipiana Albani FOTO. Giuseppe Tomasi di Lampedusa in in francobollo commemorativo e l'immagine da cui è stato tratto, il famoso scrittore aveva fatto il militare nel 1919 - ufficiale di artiglieria- a Casale, di ritorno dalla prigionia