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Il teste Porta, prima citato e ritirato dalla difesa Schmidheiny. Era superfluo o scomodo?

Dopo che la scorsa udienza era saltata l’audizione di un teste per una lombosciatalgia ieri, lunedì, alla 41ª udienza, i difensori di Stephan Schmidheiny hanno deciso che sentire Luciano Porta era di fatto superfluo. «Ci siamo resi conto che il teste Porta era in realtà stato indicato per le stesse circostanze per cui avevamo sentito Coppo e Opezzo - ha spiegato l’avvocato Carlo Alleva - e abbiamo deciso di rinunciare al teste». Una testimonianza che avrebbe potuto essere interessante perché Luciano Porta nato a Treville dove vive tuttora, era stato sentito nel 2006 dalla Procura in quanto era uno dei due tecnici del SIL, il Servizio Igiene del Lavoro interno di Eternit diretto da Bontempelli. Ma soprattutto perché se è vero che gli argomenti di Coppo e Opezzo erano gli stessi le conclusioni erano del tutto diverse. Il SIL aveva lo scopo di monitorare l’inquinamento da fibre di amianto negli ambienti di lavoro, ma successivamente l’attività del SIL si è estesa al monitoraggio del livello acustico ambientale, polverosità generale e così via, in tutti gli stabilimenti Eternit in tutta l’Italia. Gli spunti di Porta Tanti gli spunti che Porta aveva fornito ai magistrati nel 2006 e che però non serviranno al processo in quanto la sua testimonianza non è stata replicata in aula durante il dibattimento e - quindi - non costituisce una prova. Le misurazioni del SIL Sulle misurazioni Porta aveva sottolineato che erano molte le lavorazioni che «potevano esporre ad elevata polverosità», in genere quelle a carattere manuale. Aveva anche spiegato che le misurazioni venivano effettuate su tutte le postazioni di lavoro, facendo sia rilievi personali sia ambientali e che quando gli impianti funzionavano bene la concentrazione delle fibre non superava il valore di 2 fibre per centimetro cubo, ma che quando erano state fatte misure in situazioni di malfunzionamento degli impianti aspiranti «la concentrazione di fibre di amianto poteva salire indicativamente di due ordini di grandezza, per esempio intorno alle 200 fibre per centimetro». Una novità perché nessuno aveva mai parlato di rilievi fatti in situazioni di questo tipo che - secondo le testimonianze dei lavoratori - si verificavano piuttosto di sovente. Ma Porta nel 2006 aveva anche spiegato che se nei reparti dove si svolgevano lavorazioni a umido la concentrazione di fibre era inferiore al limite di soglia, nei reparti di trattamento del prodotto finito invece (tagli, torniture, rifiniture, ecc.), «anche con le aspirazioni funzionanti in molti casi veniva superato il limite». E che in ogni caso «l’ambiente era polveroso di suo e bastava il passaggio di un carrello per sollevare polvere...» Quella che Cesare Coppo non ha mai visto... Se poi si aggiunge che gli ambienti erano comunicanti si comprende bene come volasse ovunque. I sacchi di amianto rotti Un’altra circostanza in cui in cui si sviluppava «molta polvere» - aveva spiegato Porta - poteva essere la fase di caricamento dell’amianto negli impianti di produzione, quando i sacchetti di amianto erano danneggiati e l’operaio tagliava l’involucro esterno utilizzato per contenere il pallet in cui erano stoccati i singoli sacchetti in magazzino. In sostanza se nel bancale qualche sacco era stato danneggiato nel trasporto o nella movimentazione il materiale finiva per contaminare tutti gli altri. Facile comprendere cosa succedeva quando si prendevano i sacchi «a partire dal punto di stoccaggio materie prime fino alla zona di introduzione nel ciclo lavorativo o nell’operazione di ribaltamento del container dentro la tramoggia, in particolare nella fase di ritiro del container dall’area della tramoggia (che era aspirata) in quanto nello stesso container poteva rimanere polvere di amianto». Le ventole senza filtri Sulla ventilazione Porta aveva ricordato che in tutto lo stabilimento di Casale erano presenti ventole senza filtri per il ricambio dell’aria e grandi finestre apribili. Insomma, come aveva spiegato Gianni Turino «la polvere di amianto veniva aspirata dalla fabbrica e buttata fuori a uso e consumo della popolazione». C’erano poi alcune mansioni - aveva raccontato l’ex tecnico Eternit - maggiormente esposte alla polvere di amianto: per esempio la fase di controllo di qualità relativa al prodotto finito, dove l’operatore andava a misurare il diametro interno dei manicotti appena torniti che presentavano ancora polvere. Ma non ci avevano raccontato i periti e i testimoni che gli impianti di aspirazione erano efficientissimi? E che la polvere neanche si vedeva? L’addetto alla motoscopa Altra mansione a rischio era quella dell’addetto alla motoscopa, «che girava per tutto lo stabilimento e per i cortili (infatti in un secondo tempo è stato dotato di cabina aspirata)». «Molto polverosa» era poi la macinazione degli scarti di produzione che avveniva alla ex Piemontese utilizzando una ruspa cingolata con la quale si prefrantumavano grossolanamente gli scarti in cemento-amianto. La stessa ruspa caricava «con enorme sollevamento di polvere un motocarro aperto» (per il frassinellese Cesare Coppo invece, testimone della difesa, il motocarro era coperto; ogni viaggio per tutto il giorno si metteva e toglieva il telo?). In un capannone vi era la tramoggia del mulino Hazemag che era aperta, così come restava aperto il portone per consentire l’accesso del motocarro e «durante tutto questo percorso si liberava polvere». Operazione che proseguiva senza interruzioni per tutta la giornata. C’era poi il cambio dei filtri degli aspiratori: venivano sbattuti automaticamente all’interno della struttura della batteria filtrante ma la polvere che cadeva nel raccoglitore era rimossa; «e tale operazione, così come il cambio dei filtri, era svolta manualmente». La pulizia e le tute La pulizia dei reparti a Casale veniva svolta direttamente dagli addetti. In genere nei locali delle lavorazioni a secco era svolta a secco - aveva raccontato Porta ai magistrati - con scopa a mano o motoscopa, mentre nei reparti di produzione tutta la pulizia veniva effettuata con le lance dell’acqua. Le tute di lavoro venivano lavate a casa dagli operai o dalle loro mogli e prima di andare a casa, «era uso che alcuni operai si dessero una soffiata alla tuta con l’aria compressa». E nella pausa pranzo molti andavano a mangiare a casa con la tuta piena di polvere, esponendo così inconsapevolmente anche i familiari. Pericolo e informazioni La direzione della società non ha mai fornito direttamente agli operai informazioni sulla pericolosità dell’amianto, aveva detto Porta ai magistrati, ricordando che Eternit metteva a disposizione le mascherine ma che non veniva imposto obbligatoriamente il loro utilizzo. «Semplici mascherine della “3M”, senza valvola». E infine il famoso Tyndallometro «uno strumento ottico per contare il numero di particelle (di qualunque natura esse fossero) sospese in un dato volume di aria. Era utile per valutare grossolanamente la polverosità negli ambienti». Proprio come hanno spiegato i periti della Procura.

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Stefania Lingua

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