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Il racconto di Natale
L’angelo apparve e offrì tre doni: le persone care
Mino e la vita semplice delle nostre colline monferrine
Il viso brunito e rugoso come la corteccia di una vecchia quercia, radi capelli, bianchi come i folti baffi sopra il mento, “Mino” era tra i più anziani del paese.
Era rimasto quasi solo ora che tutti i suoi amici se ne erano andati.
Finito il tempo delle lunghe partite a carte, suo unico svago era quello di fare lunghe passeggiate per i sentieri che si diramavano per la campagna tra boschi e vigneti, seguito sempre dal suo ultimo compagno, un vecchio cane di razza imprecisata, senza nome.
In questi suoi vagabondaggi, tra i luoghi che lo avevano visto nascere e crescere, si sentiva parte di quella terra e si lasciava volentieri trasportare indietro nel tempo con la fantasia.
All’Anagrafe si chiamava Anselmo ma, data la piccola statura, per tutti era sempre stato Mino.
Era nato in una famiglia di contadini ed i genitori da sempre se lo tiravano appresso durante i lavori nei campi e nelle vigne.
Mino prediligeva il periodo della vendemmia, quando i suoi lo lasciavano entrare, a piedini e gambe nude, nell’arbi; questo era il nome che nel paese veniva dato alla bigoncia.
Nel tino si pigiavano le uve e si lasciavano anche fermentare, ma nella apposita bigoncia si faceva la sola pigiatura delle uve.
La bigoncia era molto più bassa del tino e quindi meno pericolosa, i più piccoli potevano saltare e pestare i grappoli in tutta sicurezza ed infine il mosto che ne usciva attraverso la spina veniva riversato nel tino per la bollitura.
Ancora in uso in pochi angoli delle nostre colline, un tempo la bigoncia era adoperata per l’ammasso dell’uva vendemmiata, solitamente la si poneva all’inizio della vigna e fino a lei i vendemmiatori trasbordavano l’uva con la brenta, ed il suo trasporto, quando non c’erano trattori e contenitori in resina, avveniva con i buoi fino all’aia o alla cantina.
Era quello lo spasso di Mino, che già dal mattino presto smaniava per saltare sul carro ed iniziare così la giornata “lavorativa”.
Quanti ricordi!
Anche quel mattino Mino gironzolava tra le vigne lasciando vagare la mente.
Nei pensieri si affacciarono i genitori, li ricordò mentre, piccino seduto ai piedi di un tralcio, gli sfregavano l’aglio sul pane per la colazione.
Poi si rivide adulto, mentre lui stesso portava in spalla la brenta e lassù, in cima al podere, sua moglie Rosetta lo aspettava con il cibo che gli aveva preparato; ora accanto al tralcio c’era Giovanni, il suo unico figlioletto… la storia si rinnovava ciclicamente.
Una zaffata gelida di vento lo riportò alla realtà.
Il cielo era molto nuvoloso, minacciava di nevicare, d’altronde il Natale era imminente e quello era solitamente il periodo che il piccolo paese soleva imbiancarsi.
Mino da tempo non festeggiava più le feste, praticamente da quando era rimasto solo nella vecchia cascina sul poggio.
Tirò su con il naso, fischiò al vecchio cane e riprese il sentiero del ritorno.
Non ci volle molto perché arrivasse alla “Pomera”.
La Pomera era il nome che da tempo immemore gli abitanti del luogo avevano dato al casolare, costruito con pietre da cantoni su quell’altura, appena discosta dal gruppo di case nel borgo; forse derivava da una piantagione di meli esistita in precedenza.
Era stata di suo padre, e prima ancora del padre di suo padre e chissà chi prima di loro… ciò che restava del passato si era perso nel tempo.
Il cancello d’entrata l’aveva tolto un giorno, quando vide dei bambini scavalcarlo per entrare nell’aia dove troneggiava un vecchio albero di cachi.
Considerata l’inutilità della barriera al fine di impedire eventuali intrusioni, decise che non fosse il caso di facilitare possibile cadute ai ragazzi, tanto più che i cachi sarebbero finiti per marcire al suolo visto che lui non li raccoglieva quasi più.
Ed il cancello finì sotto al portico, accanto al vecchio trattore arrugginito, capo supremo degli attrezzi inusati che lì giacevano.
Mino entrò in casa, ravvivò il fuoco nel camino e si apprestò a prepararsi il pranzo.
Quel giorno avrebbe mangiato polenta.
La polenta per Mino era quasi un rito; ovviamente gli piaceva mangiarla ma gradiva in assoluto la sua preparazione che lo teneva lungamente occupato.
Attaccava l’annerito paiolo di rame alla catena da fuoco che pendeva dal camino e vi sistemava sotto il treppiede di ferro per tener fermo il recipiente.
Vi versava l’acqua e, quando questa incominciava a bollire, nel paiolo spargeva la farina di meliga, piano piano, lentamente perché non facesse grumi, quindi la rimestava continuamente, a lungo, finchè non diventava cotta e ben densa.
Salata, la rovesciava sull’asse lasciandola riposare, quindi con l’apposito filo la tagliava a fette; una parte era destinata ad essere mangiata subito, solitamente schiacciandola ancora calda e fumante nel piatto e condendola con olio grezzo d’oliva e formaggio grattugiato, oppure con qualche intingolo o sugo avanzato da pasti precedenti.
Alcune fette le conservava per la sera quando solitamente, tagliate a metà, le farciva con il gorgonzola e le metteva nel forno: il calore sciogliendo il formaggio le amalgamava perfettamente ed erano una delizia per il palato.
Ma la parte più importante era quella che riservava per il giorno successivo.
Disponeva le fette rimaste a strati in una padella ben imburrata, uno strato di polenta ed uno di porri rosolati con acciughe sfatte in olio, polenta, porri e così avanti fino all’ultima fila che doveva essere di fette di polenta ben ricoperte di pan grattato e formaggio grattuggiato. Il tutto lo lasciava poi indorare nel forno.
Era questo un rito a cui non si era saputo staccare: lo faceva già sua madre e poi sua moglie, ora toccava a lui.
Mentre, con l’immancabile sigaro tra le labbra, era seduto sulla solita panca di legno intento a rimestare la polenta, sentì una voce alle sue spalle:
- Buon giorno Mino -
Stranamente non sussultò a quel saluto improvviso, ma lentamente si voltò per vedere chi fosse l’arrivato.
Era quello che si potrebbe definire un bel giovane, alto, biondo, occhi azzurri, che sembrava essere avvolto da una misteriosa luce azzurrognola, ma quello che affascinava più in lui era la voce… la voce era, a dir poco, melodiosa.
Più che parole, pareva che il ragazzo emanasse delle note armoniose, carezzevoli, che sapevano avvolgere ed incantare, mettendo l’occasionale interlocutore completamente a proprio agio.
- Quello che dirò non è usuale e non tutte le persone lo accetterebbero come veritiero annullando così la mia apparizione, ma io confido nella semplicità del tuo animo e vengo a farti una proposta.
Devi innanzi tutto sapere che io sono un angelo, quindi non spaventarti.
Essendo prossimo il Santo Natale, il Signore mi ha inviato sulla terra per fare ad un essere umano tre regali che siano degni della Sua misericordia.
Ebbene, io ho girato a lungo e in largo per il mondo ed ho sempre trovato chi mi abbia chiesto solo ricchezze, gloria e tanti onori.
Questi non possono essere doni che rappresentino lo spirito natalizio.
Ora sono qui per porre a te la stessa offerta: che desideri avresti, che io possa esaudire?
Rammenta, dovranno essere tre; ti chiedo di pensarci. -
Mino, per nulla intimorito, mentre con una mano continuava a rimestare la polenta col bastone, con l’altra si diede una vigorosa grattata sulla testa.
Qualche attimo di riflessione e poi, con una piccola smorfia che voleva emulare un sorriso, disse:
- Io non ho girato molto, sono sempre stato su queste terre dove ho lavorato, amato e vissuto; dalla vita ho avuto il meglio ed il peggio che potesse darmi.
Qui ho tutto quello che mi serve per tirare avanti, la mia casa, il mio orto, la vigna e tutti i miei ricordi.
Ora non saprei cosa altro poter chiedere, però… se ci fosse l’occasione che Voi possiate accontentarmi con qualcosa di speciale… ebbene, mi piacerebbe veramente rivedere tutti coloro che mi hanno amato.
Rivedere i miei cari genitori, che in quei tempi grami, quando non esisteva svago che il lavoro, quando era solo il lavoro dei campi a poter dare il necessario sostentamento, molto hanno tribolato con sacrifici e sudore per potermi allevare decorosamente.
Ricordo ancora, quando scrutavano il cielo sperando che il vento portasse le nubi sature di tempesta da un’altra parte o quando in paese si facevano processioni invocando alla Santa che intercedesse perché finisse la malattia della vite.
Quante volte loro hanno mangiato pane e pane, per riservare il companatico soltanto per me!
E poi… vedere ancora mio figlio Giovanni.
Lui era differente, aveva anche studiato; era un sognatore, un idealista.
Aspirava ad un Paese libero, dove tutti avessero uguale dignità, dove i diritti, anche degli ultimi, fossero rispettati.
Si ribellò alla dittatura, scelse la lotta clandestina di Liberazione.
Purtroppo morì in uno scontro a fuoco col nemico, proprio sulle colline qui attorno, quelle che tanto amava: si sacrificò affinché i suoi compagni potessero salvarsi.
Di lui non mi è rimasta che una medaglia.
Ed infine vorrei tanto rivedere Rosetta, la mia adorata sposa, che m’ha lasciato l’inverno scorso.
È stata l’unica donna della mia vita; non ne avrei voluta nessun’altra.
Mi ha amato profondamente ed io profondamente l’ho amata.
Con lei ho diviso tutto: i sacrifici, il dolore, la tristezza, la felicità e l’allegria.
Ancora oggi, al suo pensiero, mi si inumidiscono gli occhi e mi batte forte il cuore.
Era una donna così meravigliosa che ne sono sempre innamorato… -
- Se vorrete seguirmi - disse l’angelo sorridendo - io avrei il modo di esaudirvi, su, in Paradiso .-
A quel punto Mino lentamente si alzò, tolse il paiolo dalla catena e smorzò il fuoco del camino.
Si legò al collo il fazzoletto colorato delle feste e s’infilò la giacca buona, quella di fustagno che teneva nel vecchio armadio di noce, e ficcò nelle tasche due o tre dei suoi adorati sigari toscani.
Si mise sul capo il cappello più bello, quello che metteva solo per le grandi occasioni, e diede un ultimo sguardo alla grande stanza.
Pensò che ci volesse pure qualcosa che potesse servire per infondergli coraggio: tutto sommato quel che era in procinto di fare non era cosa di tutti i giorni!
Decise di prendere con sé una bottiglia di vino, quel buon barbera che ancora sapeva produrre la sua vigna.
Si, ora era pronto
Si rivolse all’angelo:
- Se volete, andiamo pure. -
L’angelo gli sorrise, gli porse la mano ed insieme uscirono per intraprendere quell’ultimo viaggio verso la strada del cielo.
Dall’alto cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve.
Profili monferrini
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