I ricordi di Elena Cappellano (08)- Palazzo Vitta -Colletto alla marinara e Silenzio sulle colline
di Elena Cappellano
Con tutti gli articoli che sono comparsi sull’argomento sugli ultimi numeri del Monferrato non ho potuto fare a meno di ripensare intensamente ai tanti anni in cui la Biblioteca di Palazzo Vitta ha rappresentato per me una sorta di seconda casa. Fin dall’ultimo anno delle elementari andavo lì quasi ogni pomeriggio, osservando con orgoglio e con amore gli affreschi, gli specchi, le dorature. La balconata per l’orchestra mi faceva immaginare feste e balli, anche se il famoso valzer del Gattopardo era molto al di là da venire.
D’estate, il tavolo del bibliotecario di turno occupava in questa sala un angolo vicino alla finestra.
Non ricordo bene le prime persone che mi consegnavano i libri (ho cominciato con Salgari) facendomi compilare le schede. Mi piaceva moltissimo fermarmi a leggere appoggiando il libro al grande tavolo centrale e probabilmente è stato lì che più tardi, quando ormai frequentavo il Ginnasio e il Liceo, ho acquisito l’abitudine di leggermi l’opera completa di ogni autore che studiassimo a scuola. Fino al massimo impegno, sotto la guida imperiosa del prof. Getto, quando ormai ero all’Università: ricordo le pile immani dei volumi del Tasso , su cui il professore aveva indugiato per anni, e che ho letto lì, tutti quanti, senza saltarne una riga, sui tavoli del salone, anche se qualche volta i Discorsi erano una vera tortura.
C’è stato anche il Preside Omodeo, di cui ho parlato già a lungo su questo giornale. Aveva portato dalla Grecia in cui aveva insegnato qualche anno nelle scuole italiane all’estero (qualcuno diceva che la sua graziosa moglie fosse stata una ballerina, e allora pensavo che in questo avesse seguito le orme dell’Imperatore Giustiniano) una ventata di svecchiamento e di novità: scene teatrali anche da Shakespeare erano state recitate dagli allievi al Municipale riaperto per l’occasione; gli allievi presentavano in classe il risultato di ricerche svolte su autori moderni. Avevo preparato proprio in Biblioteca un lavoretto su Gozzano, non privo di qualche merito.
Era anche un patito di D’Annunzio, e proprio su suo consiglio, secondo la mia severa abitudine, mi ero letta assolutamente tutte le opere dello scrittore, nella edizione nazionale in carta india che, come appresi poi, tutte le scuole erano state obbligate a d acquistare. Infatti, quando arrivai, per il mio primo insegnamento di ruolo, in una scuola Media del Bresciano, mi accorsi con meraviglia che non possedevano neppure un vocabolario di Latino, ma avevano i Presidenza l’edizione completa di D’Annunzio.
Vivacissimi sono per me i ricordi dei bibliotecari del dopoguerra, da Lello Ubertis (studente di legge, uno dei numerosi figli del Direttore) il quale, siccome ormai avevo raggiunto i quindici anni, ma forse ne dimostravo di più, mi faceva un po’ la corte, con dei complimenti innocenti sul mio sorriso, per cui arrossivo ma mi riempivo di orgoglio, fino a un anziano ex marinaio un po’ zoppo che amava indugiare a raccontare le sue avventure di mare a me che assorbivo tutto ad occhi spalancati. Anche il futuro avvocato Bagnera passò dietro a quel tavolo.
Le giornate in Biblioteca le passava anche il mio compagno di classe Corsari. Trovai quindi assolutamente naturale che mi dicessero come senza colpo ferire fosse entrato a un certo punto a far parte dell’organico. Forse, prima della mia partenza definitiva da Casale, arrivai ancora alla presenza di Costanzo.
Ma i ricordi più vivi, come ho raccontato altrove, sono legati alla saletta antistante la Direzione. Una grande stufa di Castellamonte vi diffondeva il calore attirava studenti e no: discussioni, conversazioni, commenti su libri, poesia e politica si alternavano intorno al grande tavolo ricoperto, mi pare, di un tappeto verde scuro. Con qualcuno di quelli che si riunivano lì (alcuni sono diventati importanti o celebri) ho intrecciato un’amicizia che è durata per tutta la vita.
Già destava in me un grande dispiacere, le poche volte che sono tornata a Casale e sono passata in via Trevigi, il fatto di vedere come il palazzo fosse stato destinato ad altre funzioni. Ma ora, l’idea che debba essere venduto e snaturato mi pare insopportabile: è come se uccidessero una parte di me, la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia prima giovinezza.
Elena Cappellano
COLLETTO ALLA MARINARA
Non se ne vedono assolutamente più in giro. Forse per questo mi ha colpita improvvisamente la visione di un ampio colletto alla marinara addosso a una bambina vestita di bleu marine, ferma con la mamma davanti a un portone. Improvvisamente ho riprovato l’orgoglio di quando, bambina di cinque o sei anni, mi contemplavo allo specchio: gonnellina a pieghe, taschino in cui riposava un fischietto legato a un cordoncino. In testa avevo un berrettino tondo e piatto, coi nastrini da marinaio, naturalmente.
Questo tipo di abbigliamento deve essere sparito con la mia infanzia, ed essere stato sepolto così profondamente sotto i ricordi successivi da non essermi affiorato alla mente neppure qualche decennio fa, quando Susanna Agnelli pubblicò un fortunato libro sulla propria famiglia dal titolo ”Vestivamo alla marinara” appunto.
Se mi sforzo di ripensare a quegli anni mi appare una via di Casale, selciata, con le inevitabili guide di marciapiede liscio al centro. Camminavo con attenzione per non sciupare le scarpe che mi piacevano particolarmente perché avevano i laccetti. Davo la mano alla mamma, e alzavo gli occhi per fissare le targhe delle vie, o quelle professionali accanto ai portoni, o le insegne dei negozi, con l’intensità che un paio di anni prima me le aveva fatte improvvisamente decifrare con stupore per la prima volta. – Mamma, so leggere! – avevo esclamato con meraviglia ed orgoglio.
Il selciato di quella via conduceva alla casa della prima sarta a cui mia madre si era rivolta a Casale. Anche questa volta il nome mi si è ripresentato all’improvviso: Orsi, si chiamava Orsi, ed era una persona piccola, anziana, che ci riceveva in un alloggio un po’ buio in cima alle scale, in cui ero particolarmente a
ttratta da un interessante manichino. Da lei mia madre si era fatta cucire il primo tailleur casalese, di una bella stoffa di lana scura. Soltanto i capi più importanti li ordinava alla sarta: per il resto, era bravissima nel tagliare e cucire lei stessa i vestiti. Ci si divertiva anche, credo, lei che era stata ragioniera in banca come papà. A me allora pareva un’ammissione di povertà e non ne andavo affatto orgogliosa.
Comunque fu la sarta Orsi a cucire il mio vestito alla marinara.
Qualche volta accompagnavo mia madre anche dalla modista. Quanti mestieri sono scomparsi! Chi ricorda più l’avidità con cui Ingrid Bergman in un film di Lubisch intitolato Ninotscha, uscito nei primi anni del dopoguerra osservava in una vetrina un cappellino che alla fine del film andava a comprarsi.
Le sarte dovevano essere numerose anche a Casale in quegli anni in cui si ignorava ancora quasi completamente l’esistenza del “pret à porter”.
Io che sono sempre stata curiosa delle vite degli altri fino ad appropriarmi a volte dei loro mondi e ad inventarmi storie in base a figure che vedevo dietro ai vetri, guardavo sfacciatamente dalla mia beneamata terrazza all’interno delle finestre della casa di fronte, in cui lavorava una sarta –bravissima, si diceva – che si chiamava Sacco. La vedevo tagliare, cucire i tessuti con professionalità. A fare la spesa ci andava il marito, cosa che per me in quei tempi di rigida divisione dei compiti nelle famiglie aveva dell’incredibile, come lo aveva l’idea che un padre spingesse la carrozzina del figlio per la strada.
Comunque, dopo quel vestito alla marinara, non ero più stata da una sarta, perché mia madre aveva deciso di provvedere lei a tutto , sino a quando non ho frequentato l’Università. Allora, con un tessuto Unnra a quadretti grigi mi ero fatta confezionare un cappotto e lo avevo pagato coi guadagni delle mie lezioni private, con molto orgoglio per il fatto di decidere da sola del mio abbigliamento. Questa volta la sarta si chiamava Tagliano, e suo figlio, che non aveva molta voglia di studiare, e che era venuto qualche volta a lezione da me, era un campione di bocce.
Erano anni, quelli del dopoguerra, in cui un regalo ambito era spesso rappresentato da un taglio di tessuto: per le stoffe, nel periodo bellico e anche dopo, erano stati necessari a lungo i bollini della tessera. Tessere grigie, che bisognò esibire anche l’unica volta che mio padre mi portò con sé in un ristorante a Milano. Ci volevano i bollini per il pane.
L’orgoglio che io avevo provato quando ero andata in giro la prima volta con il vestito alla marinara brillava negli occhi della bambina che ho visto indossarlo pochi giorni fa, anche se le proporzioni del colletto erano un po’ diverse.
Origine di quell’orgoglio doveva però essere lo stesso senso di promozione sociale: La bambina che lo indossava era nera, e nera era anche la mamma a cui dava la mano.
Elena Cappellano
SILENZIO SULLE COLLINE
Un giorno di una ventina d’anni fa mio cognato Giulio (ne ho parlato quando è scomparso) tornò a casa dicendo .- Ho comprato una casa in campagna a Montemagno. Fu allora che sentii nominare il paese per la prima volta.
In realtà era una sorta di villa con un grande giardino in pendenza, in cui crescevano di pini e un vecchio ciliegio, che arrivava alla balaustra affacciata sulla strada. Dietro, invece, c’erano un albero di cachi, un alloro , un fico, dei fiori e un orto. Questa parte, logicamente, era in salita. Credo che per anni questo contatto settimanale con la terra, che manteneva nella buona stagione lavorandola con passione, gli abbia dato momenti di abbandono e di felicità. Con mia sorella aveva cercato i mobili, gli armadi, le sedie, come per una casa nuova.
Qui a Torino di Montemagno si è parlato recentemente in occasione della mostra “Strade di polvere” aperta a Palazzo Bricherasio, in cui si possono tuttora ammirare i dipinti del pittore Calvi di Bergolo. Da un altro pittore aveva rilevato la casa mio cognato.
Io, che qualche volta li seguivo nei fine settimana, mi sono subito innamorata del paese che percorrevo in lungo e in largo tutte le volte che potevo. Devo confessare che le mie abilità di giardiniera e di esecutrice di lavori domestici (i piani della casa sono tre) sono sempre state piuttosto ridotte. Ma ho subito amato i vicoli che , numerati (I, II… fino all’VIII) si irradiano dal bellissimo castello medievale, che una sera di parecchi anni fa è stato aperto per un concerto che mi ha fatta sognare, tanto che ne ho subito scritto un articolo per il Caval ‘d Brons, a cui collaboravo quando usciva ancora.
Ma non è più successo.
Ai primi freddi, in occasione della festa patronale del paese, San Martino, tutte le famiglie lavoravano per preparare agnolotti che venivano cotti nella cucina della Pro Loco. Si andava a comprarne le razioni fumanti da portare a casa, oppure si mangiavano lì, in lunghe e allegre tavolate, con tutto quello che di rituale e comunitario il fatto comportava.
Mi accorgo di parlarne al passato: perché?
Quest’anno gli agnolotti non ci sono stati e non ci saranno. Come mai? Nessuno ha saputo dirlo, a me che vengo da fuori. Una fetta d’allegria, una tradizione che aveva preso radici in me, è caduta nel silenzio.
C’era un grande magazzino di tessuti sulla strada che scende in basso verso gli orti: si chiamava Confusione. Anche a questo mi ero affezionata, giravo fra gli scaffali e ci comperavo sempre qualcosa: anche la coperta di lana blu che da allora mi tiene caldo d’inverno.
Non c’è più. Perchè? Nessuno ha saputo dirmelo. – dev’essere stato trasferito a Castell’Alfero, - ha opinato a un certo punto la barista.
Domenica scorsa ho sentito passare la banda che accompagnava il corteo a portare la corona del quattro novembre fino al Monumento ai Caduti, scolpito da Capra, come ho scoperto recentemente. Un paio d’anni fa dalla piazza della Chiesa era stato giustamente spostato di fronte all’ingresso del Cimitero
La bellissima piazza, con la sua gradinata così scenografica da ricordare Trinità dei Monti, brillava solitaria sotto il sole stupendo che era succeduto a una settimana di pioggia. A così silenziosa. Eppure quello era il fine settimana che precede San Martino.
Perfino le campane parevano suonare più timide.
Camminando per le deserte “strade di polvere” che vanno verso San Carlo dove ha abitato il pittore che ho ammirato a Palazzo Bricherasio non ho incontrato come negli anni passati i gruppi di allegri cacciatori sulla via del ritorno. E le vigne rimaste, erano poche: -sarà per far riposare i terreni, - diceva mia sorella che come me di agricoltura non sa nulla.
Elena Cappellano
IN PRINCIPIO ERA RATTAZZI
La memoria dell’infanzia è prima di tutto legata alle immagini visive: fra queste, le serate infantili passate a giocare freneticamente sulla piazza (allora era possibile) quando la luce cadeva tardi. E poi, i richiami delle madri dalle finestre: allora si rientrava in casa.
Centro e appoggio dei nostri giochi era la statua di Urbano Rattazzi, che alla piazza dava il nome. Alcuni gradini, molto utili per spiccarne dei salti, portavano al piedestallo su cui si ha messo ergeva il personaggio che benevolmente sovrintendeva ai nostri giochi: tutt’intorno, gli occhi passavano dalla piccola bellissima chiesa della Trinità, che oggi ha subito altri destini, ai negozi situati sul lato lungo, come la drogheria Busto, la latteria in cui, per anni ancora dopo la guerra andavo prima della scuola a comprare il latte con i bollini della tessera e, dall’altro lato più corto, la panetteria che vendeva i “mignin“, i cavallini di pane e soprattutto, (richiamati alla mente in questi giorni), i galletti di sant’Evasio con cui si rientrava trionfanti nel giorno della festa patronale.
Tutto questo fulmineamente si è ripresentato alla memoria quando, durante l’interessante convegno indetto da Immagine per il Piemonte sugli accordi di Plombières il casalese Roberto Coaloa, nel corso della sua interessante relazione, ha citato il convegno su Rattazzi tenutosi recentemente ad Alessandria.
Il sole, che rendeva splendenti le montagne coperte di neve sullo sfondo dei viali penetrava anche nella Biblioteca in cui si è tenuto il Convegno “Gli accordi di Plombières 150 anni dopo“, ricco di interventi interessanti e puntuali.
In particolare quello di Coaloa ha messo a fuoco le due figure protagoniste dei fatti di allora, Napoleone III su cui ha riportato e commentato un’interessante biografia, e Vittorio Emanuele II. Ma naturalmente tutti gli interventi hanno sottolineato la centralità della figura di Cavour. Proprio contro di lui aveva tramato sotto sotto, collaborando con la Bela Rosin, Urbano Rattazzi, nato proprio duecento anni fa. Fu lui, fedele sempre ai Savoia, a organizzare il viaggio di Carlo Alberto in Portogallo.
Lo studioso Roberto Bavero che io, confesso, conoscevo solo come Lions di grande peso carismatico e di grande abilità informatica – ma in realtà alcuni incontri in Biblioteca avrebbero dovuto mettermi sull’avviso – ha in realtà scritto un ponderoso libro su Costantino Nigra e si prepara a tenere un ciclo di conferenze su Cavour.
Dei due personaggi ha messo a punto il grande peso politico nella conclusione degli accordi, su cui una lucidissima introduzione è stata pronunciata dalla professoressa Paola Casana , partendo dai prodromi individuabili nella pace di Parigi del ’56, dopo la guerra di Crimea, e insistendo sul principio di nazionalità, humus adatto alla formazione del Regno d’Italia.
Il Presidente Vittorio Cardinali ha ripreso dei testi di Montanelli, il quale sostenne che i Mille avessero mandato a monte i progetti di Plombières.
Le sfaccettature del convegno sono state molte. Fiora di Centocroci ha messo l’accento sugli esuli e sulla formazione dei Cacciatori delle Alpi, che assegnò status regolare ai garibaldini reduci da tante imprese. Tutti gli aspetti di quegli anni sono stati sviscerati, da quelli del costume (Barbara Ronchi della Rocca) che ha insistito sul demi monde parigino, a Donatella Taverna che ha messo in luce la formazione parallela della Romania, a Francesco De Caria che ha ricordato la cronaca torinese di quegli anni e le dimissioni di Rattizzi successive all’incendio dell’Alfieri.