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Mezze verità e palesi menzogne del consulente di Schmidheiny. Bruno Pesce: «Se Cecchetti fosse stato un teste si poteva profilare la falsa testimonianza»

Mezze verità, palesi menzogne, tante contraddizioni. Secondo Bruno Pesce, coordinatore del Comitato Vertenza Amianto se il consulente portato in aula dalla difesa di Stephan Schmidheiny, imputato nel processo Eternit di Torino, «fosse stato un teste si potrebbe addirittura profilare la falsa testimonianza. Siamo veramente rimasti molto, ma molto stupiti. Non credevo alle mie orecchie e ai miei occhi per il livello degli argomenti: fasulli in modo spudorato. Siamo convinti che una linea di difesa che si basa sulle perizie ascoltate finora non avrà nessuna efficacia, anzi che possa addirittura essere controproducente». Lo stupore di Pesce è relativo all’accusa lanciata dal professor Gaetano Cecchetti (ex docente all’Università di Urbino e alla Cattolica di Roma, Igiene industriale e altre discipline) alle cementerie per la polverosità e all’allusione al cromo come cancerogeno: «Cosa c’entra col mesotelioma?». «Poi il fatto delle molazze che erano sigillate... Ma con cosa? C’erano almeno cinque o sei ex operai e nell’intervallo hanno espresso rabbia e stupore per quello che avevano sentito, compreso il discorso del taglio e dello svuotamento dei sacchi “a ciclo chiuso”. Non è vero niente...». Consulenza tecnica e ricordi personali Gaetano Cecchetti ha premesso che la sua sarebbe stata una consulenza su aspetti tecnici legati alla prevenzione (misure di sicurezza negli impianti), ambito igiene industriale. Ma poi di tecnico si è sentito poco; sembrava piuttosto di assistere a una elencazione di prodotti destinati alla protezione degli ambienti e dei lavoratori: macchinari, filtri, mascherine, tutta roba d’avanguardia, come sfogliare un catalogo contenente il meglio del meglio. Una ricostruzione che a quanto è emerso in aula (il consulente ha consegnato due faldoni che dovranno essere esaminati) era legata più ai ricordi personali («inutili e inutilizzabili», ha sottolineato il pm Gianfranco Colace dopo che lo stesso presidente aveva più volte invitato il teste ad attenersi a documentazione e non a ricordi) o su informazioni messe a disposizione. Da chi? Dall’Eternit, come nel caso del materiale fotografico: macchinari mai visti in stabilimento a detta degli operai che lo stesso consulente ha detto di avere forse (perché non ricorda bene «sono passati 30 anni...», ha precisato) fotografato lui stesso. Forse... Scarti in... «discarica». Vale a dire sul greto del Po Lo scarto secco, ha detto il consulente, con l’avvento degli svizzeri (dai quali è stato incaricato come perito di parte) finiva al mulino Hazemag e «in misura del 3% nell’impasto. L’eccedenza andava in discarica». La «discarica» - anche se lui non l’ha detto - era il greto del Po dove Enrico Bagna ha buttato centinaia più probabilmente migliaia di tonnellate di camion di rottami nel periodo compreso dal 1972 al 1983. A cavallo tra gestione belga e gestione svizzera... La mistificazione, classica tecnica Eternit La tecnica insomma è quella classica di Eternit, la mistificazione, quella in base alla quale a un certo punto si diede la direttiva di non parlare più di «cemento-amianto» ma di «fibrocemento», una attenzione utilizzata tutt’oggi in aula dalla difesa di Schmidheiny. Rottami secchi che venivano «stoccati come materia prima seconda nella ex Piemontese. Dal 1983 fu adottato un prefrantumatore», ha detto Cecchetti. Area che - ha detto il consulente - in base ai suoi ricordi era «in linea di massima protetta». Il «prefrantumatore» - per quanto ricordano gli addetti - erano la ruspa che passavano coi cingoli sui rottami provenienti da tutti gli stabilimenti Eternit d’Italia e il fatto che solo il 3% finissero nell’impasto da un lato è inquietante, perché tutto il resto andava sulle rive del Po, vale a dire disperso nell’ambiente causando quell’inquinamento diffuso che ha provocato e provoca tanti danni, dall’altro una consolazione perché nell’impasto ci finiva in quel modo anche l’amianto blu delle lavorazioni in cui era impiegato (la tornitura dei tubi) attraverso gli scarti che diventavano «materia prima seconda». E comunque è falso almeno in base alle schede Eternit prodotte dalla Procura che parlano addirittura del 20%. Quanto al fatto che l’area fosse protetta le foto dell’epoca mostrano un capannone in gran parte senza tamponamenti, esposto... alla rosa dei venti. Ciclo chiuso! Ma il «crostone» chi l'ha fatto? L’acqua – ha detto Cecchetti - veniva recuperata e tornava nel ciclo produttivo. Questo però in base alle testimonianze - se è vero - lo è dopo il 1981-1982 quando si realizza il depuratore in base alla legge Merli. Prima finiva tutto in Po (c’era persino un apposito canale che partiva dallo stabilimento). Tanto che è si dovuto procedere a una bonificare radicale di quel tratto di sponda ricoprendo il «crostone» d’amianto alto in certi punti fino a sei metri. La cosiddetta «spiaggia», dove ci si distendeva «senza sporcare l’asciugamano con la sabbia», dove la gente ci faceva le grigliate la domenica tanta era la convinzione che si trattasse di un innocuo inerte. E invece ci si esponeva al rischio di perdere la vita. I filtri autopulenti e le mascherine psicologiche Altro motivo di stupore per le parti lese, gli ex lavoratori, gli esponenti del comitato che le situazioni le conoscono attraverso centinaia di racconti, i filtri «a membrana» che il consulente ha addirittura ipotizzato che fossero «autopulenti», negando così che gli intasamenti fossero frequenti, come affermato dai testimoni ripetutamente in aula. Perché a quanto si è capito il problema dei filtri non fu mai veramente risolto, in quanto quelli andavano bene per fermare le fibre d’amianto era molto fini e finivano per essere intasati dalla polvere di cemento. E... boom, veniva fuori il polverone. Le mascherine? Si mettevano occasionalmente o per lavorazioni pericolose, ma non si sa poi quali fossero le lavorazioni pericolose visto che la polvere era ovunque. E lo stesso consulente ammette che non era possibile portarle tutto il giorno. Chi vuotava i sacchi lo faceva per otto ore di fila (anche sedici), aprendoli e prendendo l’amianto con le mani per metterlo nelle tramogge. Ma per il consulente tutto avveniva «in depressione» e sotto aspirazione. E sul modello della mascherina «il tipo 3M con facciale P3, ancora oggi consigliato per le bonifiche» citato da Cecchetti c’è discordanza netta con i ricordi dei lavoratori: «La Procura aveva citato una lettera di Robock che diceva che le mascherine da utilizzare – ricorda Pesce – erano di un certo tipo, ma che costavano troppo. E quindi che si potevano utilizzare quelle comuni più economiche che non servivano a nulla ma avevano un positivo effetto psicologico sui lavoratori...». Un po’ come chiamare l’eternit fibrocemento... è pericoloso uguale ma suona meglio. Agghiacciante! E poi il manuale Eternit per la sicurezza dei lavoratori che è del 1984, quando ormai si era alle soglie del fallimento. E prima? Non si sa... Un andirivieni temporale, insomma, per cercare di riportare tutto agli argomenti e alle condizioni più favorevoli all’imputato. Ammesso che vi sia qualche riscontro a favore. Ancora: l’amianto blu che il consulente - ha detto - è stato impiegato fino a metà anni Settanta («abbandonato nel 1976 per le lastre e utilizzato nei tubi a pressione fino al 1991») e che guardacaso veniva «difeso» da Emilio Costa e dai dirigenti Eternit ancora nel 1984 con prese di posizione pubbliche. Falso: il pm Colace ha parlato di documenti da cui risulta l’impiego del blu fino al 1979 anche nelle lastre. Perché dice che non veniva più usato?, ha chiesto il presidente del Tribunale Giuseppe Casalbore. Ricordi, ipotesi, rigore scientifico... La risposta del consulente è stata disarmante: non perché vi fossero riscontri sui documenti esaminati ma in base alla sua convinzione che «nelle lastre non era necessario». Una ipotesi! Il consueto rigore scientifico! Mentre per le fibre alternative esisteva un programma denominato «NT» che il consulente ha detto che era stato sviluppato dal 1983 ma che risulta invece attivo da metà anni Settanta. E poi la citazione delle perizie ma solo di quelle favorevoli (Ocella, che dalla documentazione a disposizione della Procura era emerso essere non certo super partes, ma legato a doppio filo all’Eternit; mentre non viene mai nominata la perizia Salvini che portò alla condanna dei dirigenti Eternit nel processo di Casale). E ancora l’affermazione che quando il SIL faceva i sopralluoghi fosse irrilevante («non toglie credibilità alle rilevazioni») che l’azienda fossere preavvisata: «Le pulizie di Pasqua non eliminano la polverosità della produzione». Una affermazione comprensibile solo se si tiene conto dell’altra fatta dal consulente relativa alla polvere, e cioè che «non è pericolosa se non è movimentata...», come se esistesse un metodo per tenerla lì ferma. Se Eternit lo conosceva il consulente non ha spiegato quale fosse, neanche a livello di… ipotesi. Aree di decontaminazione e tute piene di polvere E poi l’ingresso e l’uscita in fabbrica attraverso aree di decontaminazione (a cui aveva fatto riferimento il consulente dei Medicina Democratica Mara) e che Cecchetti ha detto non era mai stato progettato né realizzato: «fino a metà anni Novanta». Ma le tute piene di polvere perché non venivano lavate dall’azienda, che invece lasciava che persino le madri tornassero a casa ad allattare i propri bimbi con il grembiule pieno di amianto? Rilevazioni - quelle del SIL - sulle quali il professore ha tratto le proprie conclusioni basandosi sull’esame solo di parte dei report. A campione, a caso, tutti?, ha chiesto il tribunale. «Quelle che mi sono state messe a disposizione». Da chi? Presumibilmente dalla difesa dell’imputato, lo svizzero Stephan Schmidheiny imputato con il barone belga Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de la Marchienne dalla Procura di Torino per disastro doloso permanente e inosservanza delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro. E se gli fossero state celate informazioni significative? È un metodo rigoroso e scientifico di procedere? E sono ancora valide le conclusioni di Cecchetti che ha elogiato le tecniche e i risultati del SIL sovrapponibili ad altri – che però secondo le sue stesse affermazioni erano «scarsamente attendibili». E le foto, che persino lui che le proietta ha difficoltà a collocare: forse derivanti dall’archivio Eternit, forse dal suo personale, forse scattate proprio da lui, forse di Casale, forse del 1980...

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