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  • 12 giugno 2020
  • Casale Monferrato

Come convivere con il virus e uscire dall'emergenza

Caro direttore, vorrei cogliere l’occasione di un incontro avuto l’altra sera con gli amici soci del Rotary Club di Casale Monferrato per fare alcune riflessioni. Nella conviviale (realizzata in videoconferenza e gestita dal presidente Massimo Capra Marzani ) l’argomento trattato è stato “Nell’occhio del ciclone: il contributo casalese ad una esperienza inimmaginabile” e relatore è stato Mario Dealessi dirigente medico dell’Ospedale Santo Spirito. Il professionista, che è stato un riferimento importantissimo per tanti cittadini e per i medici di famiglia del territorio nel periodo più grave dell’emergenza COVID 19, ha fornito una emozionante testimonianza su come il nostro ospedale si sia trovato all’improvviso ad affrontare la più grave emergenza della sua storia e di come quasi a mani nude gli operatori abbiano dovuto trovare immediate soluzioni a una situazione che sembrava irreparabile. È emerso il racconto di una prova tremenda che, come in tanti altri casi della storia della città, ha dimostrato senza falsa retorica uno straordinario senso del dovere degli operatori e un grande spirito di comunità ( che peraltro ha toccato tutti i settori della vita pubblica ). Molti i temi toccati dal dibattito seguito alla relazione: i dissennati tagli alla sanità pubblica e ai posti-letto degli ospedali italiani (negli ultimi dieci anni si sono persi in omaggio alla “spending-review” più di centomila posti-letto, con un record poco invidiabile nella nostra regione); il nostro Servizio Sanitario Nazionale che dal “migliore del mondo” si è ritrovato all’improvviso vecchio e obsoleto; l’indispensabile rifinanziamento della sanità pubblica; la necessità di nuovi modelli ospedalieri che attraverso una organizzazione flessibile siano in grado di affrontare future emergenze; la tutela degli anziani fragili; la rifondazione prioritaria della medicina del territorio. La ristrettezza dei tempi imposti dalla video-conferenza ha però impedito di affrontare il tema sicuramente più cruciale: come ritornare “alla normalità”? L’Italia si trova drammaticamente stretta come una nave fra due scogli su cui rischia di naufragare: da un lato la presenza ancora del virus fra la popolazione e l’ipotesi di un nuovo picco epidemico in autunno, dall’altro lato le conseguenze della lunga chiusura ( il ‘lockdown’) che si fanno sentire a livello economico e con gravi implicazioni a livello sociale, psicologico e sanitario. La “riapertura” (o meglio, l’allentamento progressivo del ‘lockdown’) rappresenta un colpo di timone necessario per evitare lo scoglio della crisi economica, ma non si può ignorare che questa sterzata fatalmente ci avvicini allo scoglio del virus.

L’arrivo della pandemia COVID-19 è stato uno shock a livello non solo sanitario, ma anche sociale e culturale. L’arrivo come uno “tsunami” del COVID-19 (malattia sconosciuta, spesso mortale, per la quale non c’era né una cura né un vaccino) ha creato terrore non solo fra la popolazione ma anche sgomento fra i sanitari e gli esperti. La crescita esponenziale del numero dei nuovi contagi, dei ricoveri ospedalieri e in terapia intensiva, e poi del numero dei morti, in un contesto di sostanziale impreparazione dei sanitari ha creato un devastante fattore di amplificazione del danno: il sovraccarico ospedaliero, aggravato dal diffuso contagio dell’infezione fra gli operatori sanitari. In quel contesto così drammatico il “lockdown”, la chiusura, era l’unica cosa che è sembrato si dovesse fare ( sull’esempio della Cina e della Corea ). Ma quasi tre mesi dopo, avendo a disposizione moltissimi dati e informazioni, abbiamo il dovere di chiederci se la situazione attuale richieda ancora un tipo di intervento così potenzialmente distruttivo della nostra società. Per esempio: sappiamo molto meglio come gestire questi malati; conosciamo tanti aspetti della trasmissione e della storia naturale dell’infezione; abbiamo terapie antivirali e anti-infiammatorie di una certa efficacia, per non parlare del “plasma convalescente” e del “plasma exchange”; si stanno sviluppando vaccini molto promettenti; abbiamo test sierologici in grado di farci conoscere la diffusione dell’infezione fra la popolazione; molti esperti ipotizzano che l’infezione si stia attenuando dal punto di vista della patogenicità; senza contare che la prima ondata di COVID ha contribuito a creare un certo livello di immunità fra la popolazione.

Ma è anche doveroso chiedersi: quanto ha veramente “funzionato” la chiusura? La risposta a questa domanda è che non lo sappiamo. Noi non sappiamo cosa sarebbe successo se avessimo fatto una “chiusura” meno rigorosa come per esempio in Svezia o in Florida, dove si sono avuti tassi di morbilità e di mortalità di gran lunga inferiori a quelli italiani; così come non sappiamo perché, nonostante le previsioni più catastrofiche, in Africa non si sono verificati i milioni di morti preconizzati dagli esperti. Quello che però stupisce osservare è come, a fronte delle tante ipotesi dei diversi scenari catastrofici di estensione della pandemia elaborati dal Ministero della Salute, si vedano circolare ancora pochi studi sui danni potenziali che il prolungato “lockdown” avrà sulla nostra società e sulla salute psico-fisica collettiva a lungo termine. Questi studi esistono ma sono quasi sempre ignorati dai media e dai decisori politici: una sorta di distorsione mediatica e cognitiva incentrata solo sulla “narrazione” dei danni del virus e non sui danni della chiusura. C’è ancora poca informazione sull’eccesso di mortalità per diagnosi ritardate a causa del blocco delle normali attività ospedaliere, sui suicidi di persone che hanno perso il lavoro e con questo ogni speranza di mantenere la famiglia, sulle violenze domestiche causate dal prolungato isolamento, sulla depressione e su altre malattie psichiatriche causate dai fallimenti e dalle bancarotte, sui disturbi cognitivi e della sfera affettiva e relazionale nei bambini e ragazzi a cui è stata sottratta la scuola per mesi e mesi.

Inoltre non si può responsabilmente sottovalutare che un Paese che si impoverisce, possibilmente fino ad arrivare sull’orlo della bancarotta, avrebbe enormi difficoltà a mantenere un servizio sanitario pubblico di qualità. Le statistiche attualmente disponibili indicano che: l’80-90% dei contagi accertati è avvenuto tra degenti molto anziani nelle case di riposo e negli ospedali (medici, infermieri e i loro familiari). Sappiamo anche che: la mortalità da COVID-19 ha coinvolto in gran parte persone molto anziane con età media 79 anni (mediana 80), già ricoverate in strutture sanitarie od ospedaliere e che per l’80% avevano tre o più patologie gravi preesistenti; le infezioni in forma severa sembrano collegate a valori elevati di inoculo virale in ambienti chiusi, dove sono presenti persone malate. Ma qual è stata finora la letalità ( percentuale di morti sul totale degli infetti ) effettiva di COVID-19 e quale sarebbe se dovessimo vivere una seconda ondata stagionale nell’inverno 2020-2021? Molte stime della letalità sono tra 1% e 3%, ma rimangono stime perché non conosciamo il numero esatto dei soggetti infettati (vi è un’alta percentuale di asintomatici).

Quello che invece è lecito presumere è che la letalità di un’eventuale “seconda ondata” di COVID-19 sarebbe sostanzialmente più bassa in seguito a: maggiore capacità di tracciare ed isolare i contatti; aumentate possibilità di trattare i malati in modo più precoce ed efficace; migliore preparazione a livello ospedaliero; disponibilità di farmaci molto promettenti; la presenza di un certo livello di immunità nella popolazione.

Detto tutto questo, ritengo che il danno più devastante della prolungata chiusura (ma anche di una riapertura perennemente a metà) in un mondo fatto di mascherine, guanti, muri di plexiglas, distanziamento sociale esasperato, senza più potersi stringere la mano o abbracciarsi, senza capire se una persona sta sorridendo o è imbronciata, senza poter condividere un piatto di pasta o una partita di calcio o una sala da ballo, mentre ai bambini viene negato perfino il piacere di giocare insieme, è quello di snaturare in un modo profondamente assurdo e spaventoso la nostra vera essenza di animali sociali. Ma torniamo nuovamente alla allegoria dei due scogli: dove siamo adesso ? Probabilmente siamo abbastanza lontani dallo scoglio del virus, mentre ci avviciniamo pericolosamente a quello della catastrofe sociale. Premetto ovviamente che per cultura scientifica sono lontanissimo dalla narrazione cialtrona-negazionista di vari gruppi complottisti per i quali il virus non esiste, ma è stato creato in laboratorio e si cura con le erbe.

Ma nello stesso tempo giudico illogica e insostenibile la narrativa catastrofista (esasperata purtroppo da troppi “esperti” narcisisti e da troppe “task-forces” autoreferenziali) che persegue pervicacemente il cosiddetto “rischio zero”. Molti epidemiologi non “catastrofisti” ( nei quali mi riconosco ) ritengono che si possa e si debba tornare alla normalità, in modo responsabile e con la consapevolezza di un rischio socialmente accettabile. Un costante monitoraggio e una attenta sorveglianza (dati statistici aggiornati, tracciamento dei casi e dei contatti, test virologici e sierologici ) potranno dare ai decisori politici le informazioni per abbassare gradualmente le misure restrittive, ma senza che i cittadini abbandonino le buone abitudini igieniche apprese in questi mesi. Assieme al potenziamento dei servizi sanitari pubblici, alla maggiore preparazione dei sanitari, a una migliore gestione delle RSA e tutela degli anziani, all’arrivo di farmaci e vaccini efficaci, avremo quindi il diritto a una normalità che abbiamo pagato a carissimo prezzo.


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