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  • 07 maggio 2020
  • Casale Monferrato

“Quattro mura e una pandemia”: un racconto «a diciassette mani»

Gli alunni della classe quarta B ginnasio ci hanno inviato questo racconto stilato «a diciassette mani» che si intitola “Quattro mura e una pandemia”. Eccolo.

Il freddo invernale penetra i fori della serranda. Fischia. La giornata è stata pesante. Ho concluso l’ennesimo quadro raffigurante Linda, l’amore più grande della mia vita. Mi stendo nel caldo letto e fuori si intravede la neve. I fiocchi coprono come lenzuola i verdi prati di campagna. Chiudo gli occhi e penso a lei. È il cinquantesimo anniversario della pandemia. I ricordi riaffiorano. Infilo le mie pantofole rosso carminio e mi alzo. Appoggio le braccia sul davanzale della finestra. È così freddo. Il mio sguardo è fisso sul paesaggio. Mi rituffo nell’atmosfera della primavera 2020. Si alternavano le prime giornate di sole a sporadici acquazzoni. I fiori sbocciavano. Ma non era come le altre; era la primavera in quarantena. Guardavo spesso la finestra. Un giorno ero pieno di verifiche e di interrogazioni online. Vedevo il passare delle stagioni.

C’era molta pioggia. Mi sentivo malinconico e allo stesso tempo spensierato. Ricordo che davanti alla mia camera c’era un balcone. Collegava il salone ad un’altra stanza. Aveva la ringhiera in ferro battuto e le sbarre nere. Era spazioso per un tavolino, due sedie e qualche vaso con dei gerani rosa. Rivivo quelle sensazioni. Nelle giornate di sole, facevo i compiti seduto su quella sedia e in quella situazione ero più rilassato: erano le mie ore d’aria. Il cielo era cambiato e mi affascinava. Era azzurro con qualche sfumatura di bianco.

Anche Il giardino pareva più grande. Aveva molti alberi da frutto: meli, ciliegi, una pianta di pere, una di susine e un’altra ancora di fichi. In quel periodo arrivavano i fiori, ma la meraviglia che provavo da piccolo era soffocata dall’ansia del futuro. Cercavo di convincermi che bastasse poco. Bastava che il mio sguardo oltrepassasse il vetro della finestra per accarezzare l’erba e per percepire il profumo dei fiori. Per non sentirmi solo, mi affidavo al telefono. Mi faceva conoscere la quotidianità di tutte le persone che non vivevano nella mia stanza. Trovavo conforto nel volto di qualche mio amico, quando invece avrei voluto abbracciarlo. Ogni giorno speravo. Sentivo i cinguettii dei lucherini. Mi facevano pensare ai giorni passati all’aria aperta. Le lucertole erano inermi, a prendere il sole sui massi. Ricordo di un cane. Un bastardino. Bianco con pelo e zampe corte. Piccolo ma chiassoso. Anche lui voleva la stessa cosa che desideravo io: la libertà. Quella che non si godeva più da tempo. Non si udiva più lo sfrecciare dei ragazzi in bicicletta.

Lungo i marciapiedi si vedevano signore e ragazzini. Gli anziani uscivano di casa per giocare a carte. Qualche adulto raggiungeva il supermercato. Camminavano veloci. Erano angosciati. I mesi precedenti era un piacere ritrovare tra le corsie dei supermercati amici, chiacchierare, scambiarsi battute e salutarsi con affetto. Ma bisognava abbracciarsi col pensiero. Quando mi sentivo triste mi sdraiavo sul letto con le lenzuola pulite e profumate. Il loro odore mi ricordava quello della libertà, quando esistevamo solo io, la musica, qualche amico e un prato di fiori. Abbracciavo il cuscino morbido, stringendolo forte contro di me. Ripensavo ai bei momenti passati e provavo un enorme senso di mancanza. Raggiungevo il sonno. Scappavo dalla realtà. Qualche volta non dormivo. Accendevo la lampada blu. La stanza rimaneva buia. La sera guardavo quell’oggetto, come se solo guardandolo intensamente avrei scoperto tutto.

Mi ricordava la giornata passata. Era come entrare in un luogo deserto dove l’unica cosa che si poteva notare era la solitudine che provavo, e all’improvviso, un raggio mi illuminava e mi riportava nella mia stanza. Osservavo per la centesima volta quella tenue luce, e l’azione si ripeteva di continuo. Alla destra del letto c’era un comodino. Alto, in legno e con delle venature bianco scuro. Aveva anche un cassetto; ci tenevo cose che usavo spesso: la custodia degli occhiali e il libro che leggevo sempre prima di dormire. Guardo la scrivania, e penso a quanto io l’abbia usata. Ero sempre con la testa china lì. La pulivo ogni giorno dalle rigacce di penne che macchiavano il suo legno. Su di lei caricavo parecchio peso: libri, caraffe d’acqua e un pettine.

La osservo meglio. È semplice e allo stesso tempo possente per il legno di noce. Il cassetto è consumato. Conserva tutt’ora la sua bellezza e i ricordi delle mie giornate passate seduto su di essa. Sposto il mio sguardo sul caminetto. Scruto il fuoco. L’oscurità è spettrale. Terribili ricordi persistono nella mia mente. I miei occhi corrono verso la fotografia posata sul suo ripiano. Ritrae me ed i miei due migliori amici: Elena e Michele. Erano entrambi morti dopo la pandemia. Non sono mai più riuscito a vederli, neanche al funerale non celebrato. Non gli ho dato forza quando ne avevano bisogno… Il mondo mi ha ridotto ad un pugno di fragili ossa senza più spinta per sopportare il futuro. Mi siedo sulla mia poltrona rossa di velluto, osservando la neve fuori. Ma i ricordi mi pervadono: mi accovacciavo sul suo cuscino soffice verde smeraldo dove meditavo cosa fare. Quando pensavo di leggere un bel libro, mi alzavo e ne prendevo uno.

Mi riposavo sulla poltrona con il mio gatto grigio perla seduto sulle ginocchia che si godeva il cinguettio degli uccellini sui tetti. Indossavo gli auricolari per ascoltare un po’ di musica in cui immergermi e sfuggire dall’ambiente circostante. Trascorrevo così i miei pomeriggi. Ma pensavo continuamente a lei. Ero innamorato di Linda. La amavo perché era diversa. Aveva le lentiggini e i capelli cortissimi. Leggeva tantissimo. Aveva il naso schiacciato e la bocca che formava un disegno particolare quando sorrideva. Avevo concluso il regalo. Seduto sul bordo del letto, tenevo tra le mani il segnalibro dipinto. Era il suo compleanno. Il mio mondo si era trasformato in un caleidoscopio, girava intorno a questo pezzo di cartoncino umido e fragile.

Ero uscito. Per un attimo tutto era euforia, e le strade, le piazze, gli alberi e i tetti prendevano vita grazie alla mia felicità, l’universo guardava solo al segnalibro di Linda. Era perfetto. La perfezione si era infranta quando ero sbattuto contro il carabiniere. Era stato molto gentile. Non mi minacciava di orribili pene. Aveva infranto la mia bolla intoccabile: provavo l’uguale impulso di prenderlo a pugni e scoppiare a piangere. E, tornato nella mia camera riuscivo solo a pensare a Linda in una stanza vuota, che leggeva tutti i suoi libri. Magari non si era nemmeno accorta che fosse il suo compleanno. Lei, quando legge, dimentica il mondo.

Per un momento ritorno alla realtà. Smetto di fissare il mondo esterno. Un bagliore attira la mia attenzione. Lo specchio da parete con la cornice di legno intagliata. Sporco dalle pennellate. Mi guarda un uomo vecchio. Un po’ triste. Solitario. Gli occhi grigi trasparenti, le articolazioni dolenti a causa dell’artrite. Piccoli ciuffi di capelli bianchi, soffici. Nel lago senza fondo dello specchio cerco i miei ricordi. Allungo la mano verso di loro. Sembra un portale verso un mondo sconosciuto. Le allucinazioni si intensificano. E allora li vedo. I girasoli. Mi avvicino. Due figure si allontanano nello sconfinato mare di giallo. Si tengono per mano. Il mio respiro accelera e penso di poter svenire. E mi rendo conto: oggi io sono libero.


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