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«Si potevano evitare tanti morti». Se Eternit avesse adottato le cautele che erano note all’epoca

Casale Monferrato «Per eliminare i rischi connessi alla lavorazione dell’amianto l’unico modo era eliminare l’amianto». Lo si è ribadito una volta di più ieri, lunedì, nella maxiaula in cui si svolge il processo allo svizzero Stephan Schmidheiny e al barone belga Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de la Marchienne accusati dalla Procura di Torino di disastro doloso permanente e inosservanza delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro per quanto riguarda l’attività dell’Eternit. E lo si è ribadito non per «accademia» ma sottolineando che le fibre alternative esistevano e la strada del fibrocemento - quello senza amianto - era realmente percorribile. È uno dei passaggi della relazione di Luigi Mara, attivo per 40 anni nel centro di ricerca della Montedison di Castellanza, esperto in microscopia elettronica, che ha svolto attività anche nel settore dell’igiene ambientale ed è esponente di Medicina Democratica e che ha elaborato la propria consulenza con Bruno Thieme ingegnere, attivo presso la Clinica del lavoro di Milano e poi in varie Asl, e infine responsabile dell’unità operativa di Igiene del lavoro dell’Asl di Milano. Entrambi in aula per le parti civili. Le fibre alternative c’erano: per esempi la lana di roccia, la fibra di vetro, la fibra vegetale o il «retiflex» già citato da Francesco Carnevale nelle scorse udienze: «Era un prodotto Montedison e so che già prima del 1962 era disponibile», ha sottolineato Mara. Il cartello però - le aziende europee del settore - decise evidentemente che era più conveniente lavorare la fibra killer e l’unica strada che avrebbe evitato malattie e morte fu abbandonata. ‘Si potevano limitare i danni’ Ma c’erano tecniche e accorgimenti che - se fossero stati adottati - avrebbero potuto ridurre moltissimo e forse addirittura azzerare il rischio asbestosi e limitare grandemente anche quello di sviluppare le forme di cancro causate dall’amianto. Neoplasie che ancora invece oggi sono tanto diffuse proprio perché Eternit però non fece nulla o quasi. Alcuni interventi avrebbero potuto essere effettuati sul ciclo produttivo isolando rigorosamente tutte le lavorazioni che comportavano dispersione. All’Eternit invece tutti i reparti erano comunicanti e la fibra volava ovunque da un ambiente all’altro. Accorgimenti che erano in uso già negli anni ‘40 e ‘50 per limitare il rischio di attività che creassero genericamente «polveri», e quindi destinati anche a lavorazioni meno pericolose di quelle dell’amianto. Postazioni di lavoro chiuse e aspiratori particolari che catturavano la fibra e la convogliavano in tubi interrati con filtri prima di espellerla all’esterno. Invece a Casale c’erano i «ventoloni» senza filtri che prendevano da dentro e buttavano fuori... E poi le mascherine. Eternit forniva (quando le forniva) quelle di carta con la fustellina di metallo da schiacciare sul naso. Ma già nel 1854 c’era un tipo di maschera inglese che era ben altra cosa e nel 1917 e nel 1923 si diffusero quelle con filtro ricambiabile. La Pirelli nel 1938 divulgò un catalogo con tutta una serie di maschere indicate per diversi tipi di lavorazione. Ma all’Eternit anche quando si usavano quelle con i filtri mancavano i ricambi e si finiva per ripulirle con l’aria compressa diffondendo ancora di più le fibre. Nel 1937 la rivista «Securitas» - hanno aggiunto i periti - dava indicazioni sulle precauzioni da adottare su questi problemi e sui mezzi di protezione personale, le mascherine, da impiegare - raccomandava - per contrastare situazioni puntuali di polverosità e ritenendo inaccettabile che si lavorasse constantemente in un ambiente nocivo. Tute da lavoro contaminate Quanto alle tute la procedura da adottare era chiarissima: spogliatoio abiti civili in una stanza, vestizione con abiti di lavoro in un altra. Al ritorno ci si doveva spogliare degli abiti sporchi, fare doccia e rivestirsi in un altro locale. Le tute di lavoro avrebbe dovuto farle lavare l’azienda. Cosa che Eternit a Casale non fece mai: tutti ricordano gli operai con la tuta blu resa bianca o grigiastra dalla polvere che entravano e uscivano dallo stabilimento. E sullo stato delle conoscenze Mara e Thieme hanno sottolineato che già nel 1907 ci fu un congresso a Palermo sulle tecniche per contrastare polveri negli ambienti di lavoro e nel 1913 un altro a Roma in cui furono enunciati «i principi della ventilazione ed esposizione». E che l’amianto fosse un cangerogeno era un «fatto assodato». Ma c’era qualcuno che evitava di utilizzare l’amainto? «Alla Montedison - ha detto Mara - nel 1954 per gli impianti di formaldeide si adottò lana di roccia invece di amianto».

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Monica Quirino

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