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  • 26 marzo 2020
  • Montiglio Monferrato

Una riflessione e un atto di umiltà

Caro Coronavirus, grazie per averci ricordato come siamo

Caro Coronavirus, benvenuto fra noi. Ora che sei qui, voglio dirti grazie. Per aver mostrato al mondo intero, perdutamente affetto da illusorie reminiscenze niciane diffuse, che di super c’è tutto, fuorché l’uomo.

Per aver ricordato che ogni differenza si annulla innanzi alla certezza di un minimo comun denominatore collettivo chiamato contagio.

Per aver svelato le profonde falle di sistema della sanità pubblica italiana, che ancora molti reputano paradigmatica (mentre certamente eroi sono tutti i professionisti in prima linea che ne fanno parte).

Per aver certificato l’inadeguatezza manifesta di una classe politica, pericolosamente attratta più da sterili elucubrazioni su redditi da fancazzismo generale legalizzato, anziché dal destinare – come il Ministero del Buon Senso vorrebbe - corrette risorse a medicina, farmacia e compagnia cantante (leggasi: crescita, lavoro e occupazione). Per aver sancito il fallimento globale della ‘globalizzazione’, e di chi crede che difesa e controllo programmatici e strategici di flussi e frontiere siano concetti ridicoli, populistici e secondari.

Per aver distrutto, con draconiane misure, la vita di milioni di italiani fino a ieri tutti casa e bottega: oggi più casa, direi. E forse, avanti di questo passo, soltanto più cassa (non certo quella dei negozi, s’intende). Malattia e fame, talvolta, sono semplicemente sinonimi.

Come vedi, cara COVID-19, mica ce l’ho con te. Ti considero un dono, un’opportunità. Ringrazio Dio, e spiego perché. Sei finalmente venuta a insegnarci che una provetta vale molto più di un Iphone. Che una chiesa chiusa può rivelarsi invece una casa di fortuna per chi è senza tetto e senza tutto. Che ad affollare già oggi le mense dei poveri sono pure i benestanti di ieri, presto in compagnia degli insospettabili di sempre.

Che uno smartphone fra le mani fa di certo il suo dovere, ma di certo non le grazie, a differenza del Santo Rosario. Che la tecnologia può far miracoli, sì, ma solo dietro un display o uno schermo a cristalli liquidi: mica per le strade e fra la gente, come all’epoca del buon Gesù.

Che un pianeta in crisi lo è per tutti meno che per Amazon, Facebook, Instagram e Twitter. Che in fondo “Siamo noi, siamo solo noi i padroni del niente”, come cantava Anna Oxa.

Ma che, soprattutto, ora è il tempo della fragilità. Dell’umana debolezza fra le dita di Dio. Fatta di giudizi che si annullano, di polemiche che si spengono e animi che si placano e sperano (ma non pregano). Di persone che si affacciano, di voci che cantano e luci che si rincorrono a comando di finestre in balcone.

Come se tutto questo bastasse a commuovere il Creatore, quasi fosse la finale di un Mondiale di calcio qualunque, e qualunquista. Ci vuole ben altro, e molto di più. Un convinto atto di umiltà condivisa e diffusa che parta dal cuore per diventare anch’esso virale come te, caro Coronavirus, e tale resti. Capace di affermare, e ricordare a tutti – indistintamente, proprio come un infinito contagio d’Amore – nonché universalmente che la ‘D’, nell’alfabeto, precede di gran lunga la ‘I’. E della ‘O’, che cosa ne sarà? Ha senso solo se le prime due vanno d’accordo, questione di logica. Ma, soprattutto, di anima. Che Dio ce la mandi buona.


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