Pubblichiamo un racconto scritto da Carlo Marchesi e ispirato alla banda Lenti, di cui, quest'anno, ricorre il 70° anniversario dell’eccidio.
La più alta di tutto il crinale della selvatica Serra dei Colli è la cascina Forgione. Il crinale è orientato da nordest a sudovest, così le cascine prendono il sole tutto il giorno. La Forgione è isolata dalle altre, sta sulla strada e davanti e dietro ha boscaglie scoscese e arruffate di quercioli, frassini e olmi, ancora oggi come sessantadue anni fa, quando era stata per breve tempo rifugio dei ventisette partigiani, qui catturati nel sonno dalle brigate nere e dai tedeschi e fucilati il giorno dopo in riva al Po, nel poligono militare, una mattina del settembre 1944.
La cascina spazia sulla distesa dei colli e sull’arco alpino all’orizzonte, bianco e azzurro, dove spicca verso il tramonto il triangolo del Monviso. Ormai da vari anni vengono a comprare queste case di campagna i cittadini e anche molti stranieri: ne sono rimaste poche in vendita e la Forgione è tra queste. Luigi ha in consegna le chiavi, per farla visitare ai possibili acquirenti. Se ne sono appena andati due, una coppia di Milano che sembrava interessata, ma incerta per il prezzo e per lo stato di abbandono che dura da tempo. Ci sono senz’altro da fare importanti lavori sul tetto e sugli infissi, gli impianti vanno completamente rinnovati, il muro occidentale è crivellato di buchi fitti, ma la struttura sembra solida. Allungata e massiccia, su due piani, è formata dai blocchi rettangolari gialli di pietra da cantone dell’astigiano, che si scalfiscono con l’unghia, ma durano secoli, pietra formata dalle sabbie del mare che nella preistoria copriva queste colline, pietra di edifici privati e sacri, scavata a mano per segrete cantine sotterranee. Come mai non si sono trovati finora compratori? Forse proprio per l’entità dei lavori da fare, la distanza dal paese, il ridotto spazio dell’aia che si apre sul pendio ripido a sud, l’isolamento stesso rispetto alle altre rare abitazioni della Serra.
Certamente Luigi si era ben guardato dal riferire ai due milanesi, come agli altri visitatori, le voci in ogni caso già poco convinte che circolavano ancora in paese e narravano di presenze misteriose, fantasmi dei due partigiani giovanissimi uccisi durante la cattura. Anche Luigi non crede a questi racconti, tutt’al più li considera suggestioni, non è più il tempo dei fantasmi e delle streghe, delle masche, come le chiamavano le nonne quando era piccolo. Eppure il Bardella, l’ultimo affittuario, che ormai anziano si era trasferito in paese, gli aveva giurato di averli visti: non beveva e non aveva fama di stranezze, ma da parecchi anni, dopo la morte della moglie, viveva da solo in quella casa così vasta e la fantasia poteva avere ceduto a quelle voci che erano cominciate già all’indomani della resistenza, tra altre vere e leggendarie che mescolavano capi partigiani temerari, giovinastri datisi alla macchia per gozzovigliare o rubacchiare, imprese eroiche, furti di galline, terrori ed entusiasmi.
Il Bardella gli aveva detto che a quei due aveva fatto quasi l’abitudine. Aveva cominciato a vederli due o tre anni dopo la morte di sua moglie. La prima volta l’avevano spaventato, quando, una mattina molto presto, aveva sentito parlottare sull’aia e, avvicinatosi a una fessura delle imposte chiuse, li aveva visti. Giocavano con un vecchio pallone di cuoio. Erano due ragazzotti sui 18-20 anni, uno più basso e tarchiato, con la faccia arrossata da contadino, infagottato in pantaloni alla zuava, che non si usavano più dai tempi della guerra, e in una maglia a collo alto; l’altro, più magro e più fine, con un’ombra di baffetti sottili e i capelli pettinati all’indietro e lucidi di brillantina, aveva una giacchetta striminzita e stropicciata, sembrava piuttosto uno studente. Già a vederli, per l’abbigliamento fuori tempo e per la fisionomia che gli ricordava vecchie foto di famiglia, il Bardella era rimasto sbalordito, tra lo stupore e il mezzo sonno: loro giocavano svogliatamente, come per ingannare il tempo, e scambiavano qualche parola indistinguibile, poi lo studente, quando il Bardella stava aprendo l’imposta, aveva subito raccolto il pallone e si era avviato per la scala della cantina, seguito dal compagno.
“Si capisce che non gli ho tenuto dietro”, aveva detto il Bardella a Luigi. “Solo verso mezzogiorno sono sceso giù in cantina a vedere, ma non c’era nessuno. Sicché ho anche pensato che avevo sognato. Ma da allora li ho sentiti altre volte parlare dentro e fuori casa, senza riuscire mai a capire cosa dicevano. Puoi capire se mi sono impressionato. Eppure ero abituato a vivere da solo e non sono mica un pauroso. Ad ogni modo, dopo due o tre volte ancora, non mi hanno fatto più tanta impressione: sarà che erano così giovani, li vedevo tranquilli, per i fatti loro, ogni tanto passavano per le scale o sull’aia, sempre a una certa distanza da me, mai all’improvviso, come quando ti capita uno vicino e non te l’aspetti e ti spaventa. Con loro non succedeva. Ho cominciato anche a rivolgergli la parola, ma era come se non mi sentissero o avessero altro per la testa. Però siamo entrati come in confidenza e io certe volte stavo seduto a tavola dopo cena e, se non avevo voglia di guardare la televisione, mi mettevo anche a raccontargli i fatti miei, pensando che erano nei paraggi, e magari me li vedevo zitti zitti in un angolo della stanza. Già io parlo anche da solo, quando sto nell’orto o nella vigna, ma lo sai che non mi sono guastato il cervello, è che a dirmi le cose ad alta voce riesco a pensarci meglio. Siccome loro a me non dicevano mai niente, non mi hanno voluto neanche rispondere quando gli ho chiesto come si chiamavano, e allora io li ho chiamati con i loro nomi, Ernesto e Giorgio, perché mi sono convinto che erano proprio quei due ragazzi ammazzati dai fascisti.
Io allora avevo 11 anni e stavo qui sotto alla cascina dei miei zii, aiutavo un po’ in campagna quando non andavo a scuola. I partigiani li conoscevo bene, un po’ andavo da loro un po’ venivano da noi, perché c’erano le ragazze, mia sorella più grande e la cugina. Erano venuti all’inizio per stare nelle baracche di legno dell’avvistamento aereo, di fronte alla Forgione, abbandonate l’otto settembre. Volevano stabilirsi lì, ma le baracche erano state demolite, la gente aveva portato via tutto, anche le assi, e allora sono andati nella cascina. Lì c’erano il Riccardo e sua sorella, che l’avevano in affitto, erano due già anzianotti, mica tanto normali di testa, ma tranquilli.
Quella mattina verso le sei, sei e mezza, eravamo sull’aia a trebbiare: quando abbiamo sentito le mitragliatrici, gli uomini hanno fermato la macchina e sono scappati tutti. Mi ricordo che era un giorno caldissimo, come tutta quell’estate, che aveva fatto tanto caldo e poca pioggia. Si era quasi alla vendemmia, anzi qualcuno di quei partigiani, siccome c’era stata la grandine due o tre giorni prima, era andato al suo paese per vendemmiare, e così si è salvato. Avevamo visto dei camion un’ora prima, cinque o sei, di tedeschi e di repubblichini, che passavano nella strada sotto la collina, ma non avevamo pensato che venissero su. Si vede che venivano da Alessandria, ma non sapevano bene la strada e così, invece di svoltare alla chiesetta della Serra, sono andati avanti e poi erano venuti su dall’altra parte. La strada non era come adesso, asfaltata, era una sterrata di campagna, stretta e scoscesa. Quando sono arrivati alla Forgione hanno piazzato due mitragliatrici da venti e hanno cominciato a sparare: sul muro si vedono ancora i buchi. Il Riccardo non c’era, era al lavoro in campagna, abbastanza lontano e non avrà sentito neanche gli spari. La sorella, che era a letto, è rimasta colpita. Ho visto io il letto sporco di sangue. Ma non l’hanno ammazzata, l’hanno portata all’ospedale e si è salvata. Davanti alla cascina c’erano cinque o sei macchine e un camion che i partigiani avevano requisito. Sono stati circondati nel sonno. La sera prima avevano fatto una festa con quelli di Tarzan, che si erano uniti a loro e in quel momento stavano accampati nel bosco un duecento metri più in là. C’erano ancora i tavoli e degli avanzi, delle mezze oche. Son scappati tutti giù per i boschi quando hanno sentito sparare. Solo Tarzan è venuto verso la Forgione per vedere, ma gli hanno sparato e allora è corso giù per i filari e loro lo hanno inseguito; sembra anche che l’abbiano ferito, ma è riuscito a sfuggire.
Non si capisce perché non avevano sentinelle, c’è gente che dice che erano ubriachi, altri dicono che sono stati traditi proprio da Tarzan, ma io non ci credo, sono i soliti che si son sempre lamentati dei partigiani, solo perché tra di loro qualcuno non era proprio a posto: si capisce, erano dei ragazzi, c’erano anche degli sbandati; ad ogni modo il capo della Forgione era uno in gamba, era stato un ufficiale dell’esercito.
E’ strano anche che i fascisti venivano da Alessandria, non da Casale, come succedeva di solito quando facevano delle spedizioni in zona. Forse perché il mese prima i partigiani della Forgione avevano fermato un loro camion, ne avevano ucciso due e gli avevano preso i mitra. Insomma, li hanno presi nel sonno, e non hanno reagito. E’ qui che Ernesto e Giorgio devono aver provato a scappare e li hanno ammazzati, ma poi non si sono mai trovati i corpi, o li hanno portati via, o li hanno sepolti da qualche parte nel bosco. Senz’altro erano lì anche loro, perché non li hanno più visti e i partigiani che erano andati a vendemmiare, e anche il Nico, han detto che stavano nella cascina. Gli altri con le mani legate li hanno caricati sui camion, e il capo, in mezzo a due di loro, su una macchina guidata dal Nico, perché i repubblichini e i tedeschi non avevano altri autisti. Io e altri ragazzi abbiamo fatto in tempo a vedere, un po’ da lontano, in mezzo al campo del granoturco, verso le nove era tutto finito. Sono andati via in fretta, forse avevano paura che arrivassero altri partigiani.
Nico e il capo, s’è saputo dopo, durante il viaggio hanno provato a liberarsi, il Nico ha gridato al capo: ‘Svegliati!’ e subito ha deviato a tutta velocità su una strada laterale, il capo lottava dietro con i due, che però l’hanno bloccato e ammazzato con un colpo in testa, mentre il Nico è riuscito a saltare giù dall’auto e a scappare. Però, poverino, l’hanno preso e ammazzato anche lui, vicino a Vignale, tre giorni prima della liberazione.
Nel pomeriggio sono venuti altri partigiani a prendere delle armi e i padroni delle macchine rimaste, a riprendersele. Siccome non c’era più benzina, le abbiamo trainate con i buoi fino all’inizio della discesa e poi sono andati giù a motore spento. I fascisti son tornati però il giorno dopo, sempre alla mattina presto. Verso mezzogiorno sembrava che se ne fossero andati, e io, mio padre e mia cugina siamo saliti, passando per la vigna, ma appena arrivati abbiamo visto che c’erano ancora e siamo scappati dentro il campo di granoturco. Allora un repubblichino che aveva una bomba a mano e una pistola s’è messo a sparare per aria e ci ha gridato di fermarci. Ci siamo fermati e ci hanno portato nell’aia. Ci saranno stati una quarantina di fascisti e di tedeschi, e mangiavano dei pezzi di parmigiano da una forma che avevano spaccato. Avevano chiuso dei prigionieri nella stalla, gente delle cascine intorno e anche il Riccardo, l’abbiamo saputo dopo.
Mio padre gli ha detto: ‘Se ci lasciate andare, vi portiamo del pane e del vino’. Così ci hanno lasciato. Son poi tornato su io da solo con una cesta, mi hanno trattato bene, mi hanno anche dato un pezzo di formaggio. Poi me ne stavo andando, ma il maresciallo tedesco, un piccoletto, mi chiama. Qui ho avuto paura davvero. Torno indietro, ma lui con l’interprete mi fa solo chiedere dove deve lasciare i vuoti delle bottiglie. Io gli ho detto di lasciarli lì che poi tornavo a prenderli e son corso via. Il Riccardo era stato imprudente a tornare lì, ma l’ho detto che non era tanto normale. L’hanno ucciso quella mattina con un colpo di pistola alla tempia e l’hanno seppellito lì sull’aia, pare che gli abbiano fatto scavare la fossa a lui, e il giorno dopo l’hanno trovato sotto una croce fatta con due canne. Quella mattina hanno bruciato completamente la cascina del Battista e volevano bruciare anche la Forgione, ma non sono riusciti perché non c’era fieno; avevano raccolto le persiane nelle stanze e gli avevano dato fuoco, ma non è bruciata.
Queste scene non me le sono dimenticate, per forza, ogni tanto mi vedevo come in un film quei due giorni con tutto quello che è successo. Nella Forgione c’è stata poi una famiglia, tra il Cinquanta e il Sessanta, e sono stati loro i primi a raccontare dei due partigiani morti che si facevano vedere ogni tanto dentro e fuori la cascina; erano tanto convinti e impressionati che appena hanno potuto se ne sono andati via. Allora ci sono andato io con mia moglie, perché l’affitto era calato con questa storia, e io non ci credevo e comunque non avevo paura, perché Ernesto e Giorgio non li avevo conosciuti di persona, però certo li avrò visti con gli altri qualche volta quando venivano da noi alla sera a trovare le ragazze. Me li ricordavo allegri tutti quanti e un po’ smargiassi, ma simpatici. Dopo che li ho visti anch’io sull’aia e dentro casa, ho provato a raccontarlo in paese, mi hanno dato del matto, ma qualcuno mi avrà creduto, perché gli dicevo una storia che sapevano già.”
Il racconto torna in mente a Luigi, affacciato al fienile che il Bardella aveva trasformato in terrazza, sgombrandolo dal foraggio e applicandovi una ringhiera di ferro lunga e sottile. La vista merita. Come mai non si riescono a trovare dei compratori? Tutta la luce è spostata verso ovest, con il grande tappeto delle colline più basse che si distende davanti a lui. Il sole, ormai calato dietro il Monviso, getta fasci di rosa e arancione sempre più intensi e meno luminosi, mentre ad oriente l’azzurro diventa cupo. Una cornacchia attraversa con volo goffo e un richiamo sgraziato il campo di fianco alla cascina, tutto rovesciato da un’aratura recente. Segue un silenzio profondo. Si muove solo la luce nel cielo. La pietra gialla della marna millenaria dei muri si ammorbidisce e prende un colore dorato sempre più scuro. Le ombre si allungano e si addensano tra i rami del grande fico dell’aia, nel fosso lungo la strada, nella svolta del viottolo che scende a valle.
Di lì forse si erano buttati Ernesto e Giorgio, ma la raffica li aveva fermati per sempre, mentre gli altri, con le mani sopra la testa, qualcuno con dentro il cuore un’invocazione, ‘mamma’, qualcuno duro e fiero, vedevano il loro ultimo sussulto, i fascisti bestemmiavano e minacciavano urlando, il motore di un camion era stato acceso, il tenentino aveva cominciato a dare ordini isterici. “Stasera o domani tocca a noi”, aveva solo detto Agostino, il capo. Cadaveri e catturati caricati in fretta sui camion, il rombo della partenza e dopo qualche minuto un silenzio greve e quelle macchie di sangue alla svolta del viottolo. Luigi ha sentito raccontare quei due giorni altre volte, in modi diversi, con giudizi a volte malevoli sulla moralità dei partigiani, sulla loro impreparazione militare, ma in tanta diversità, lo sorprendevano soprattutto alcuni dettagli minori, alcune frasi ripetute testualmente dai narratori, come se questi particolari delle narrazioni fossero stati imparati e trasmessi a memoria. Luigi parlerebbe volentieri con i due fantasmi, gli chiederebbe tante cose sui loro anni, sulla loro breve storia, ma il Bardella ha detto che non parlano con gli estranei, parlano solo tra loro.
L’ultimo bagliore rosato tramonta e il cielo è ombrato da un’unica sfumatura blu che si fa più intensa verso oriente. C’è un fruscio di un uccello tra i rami, brevi monotoni richiami di grilli cominciano il limìo che durerà tutta la notte, il pipistrello volteggia avanti e indietro per l’aia.
“A un bel momento mi sono sentito osservato. Come quando hai idea che qualcuno ti sta guardando. Mi sono mosso lungo la ringhiera. Continuavo a guardare fuori dalla terrazza, ma l’impressione era più forte, mi son sentito rimescolare dentro. Se era una suggestione, era fortissima. C’era qualcuno che dal fondo della terrazza mi guardava. Non era uno sguardo ostile, lo sentivo come se fosse malinconico, forse mi guardavano con curiosità, ma non volevano disturbarmi. Mi sono girato piano piano, senza fiatare, e dicevo: ’Adesso li vedo. Sento che sono qui’. Mi è parso di fare in tempo a vedere un’ombra che si allontanava nel corridoio verso le scale”.
Uno scricchiolìo nella catasta di legna sull’aia, un fico caduto a terra con un tonfo soffocato, ancora un fruscio di uccello tra i rami, e su, nel cielo libero, verso oriente, altissimo sulle macchie gialle e verdi delle colline, sfolgora il diamante di Venere.