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La festa della Liberazione

Avevo undici anni... Di Elio Gioanola
Purtroppo sono così vecchio da aver potuto vedere la festa della Liberazione: avevo undici anni quando davanti a casa mia, sulla via principale del paese, potei ammirare, con un a gioia che ricordo ancora con emozione, i partigiani che sfilavano cantando, con le più diverse armi da fuoco tenuto in alto in segno di trionfo.
C’erano persone di ogni età, dai richiamati quarantenni scappati in montagna per sfuggire alla chiamata dell’esercito repubblichino, ai diciottenne ancora imberbi che sfoggiavano gli sten americani rimediati chissà come. Poi tutti si radunarono in piazza e io potei aggregarmi agli altri monelli che di corsa avevano seguito la fila i loro momentanei eroi, specialmente i più giovani, loro compagni di gioco fino a pochi mesi prima.
Questi di armi non ne avevano mai maneggiate prima di allora e si vedeva bene come le tenevano in mano, anzi come le appoggiavano con calcio a terra per paura di sparare, intimoriti dal rinculo, ma erano tutti infervorati in quell’esercizio che li promoveva a protagonisti della grande festa. Pochi giorni prima avevamo visto i soldati tedeschi che se ne andavano, con in testa i loro elmetti a scodella e le armi nascoste per non provocare quelli che loro chiamavano “ribelli”, pronti alle imboscate.
Dietro le file dei partigiani c’erano anche soldati tedeschi fatti prigionieri, senza elmetti e senza mostrine, alcuni di loro, specialmente i più anziani, sorridenti per i pericoli scampati o anche perché erano riservisti chiamati alle armi contro tutte le loro intenzioni.
Ricordo alcuni di loro perché frequentavano il caffè di mio padre e cantavano canzoni piene di nostalgia, avendo dovuto lasciare la loro terra e la loro famiglia quando si credevano esentati per l’età dal richiamo. C’era anche uno che parlava italiano e aveva fatto amicizia con mio padre, che gli dava del pane bianco avuto dai contadini in cambio di un pugno di sale autarchico, rossiccio e bagnato, ma allora era un tesoro, e il tedesco, che in realtà diceva di essere austriaco, mi portava delle caramelle che da noi erano sparite.
Dopo i partigiani, che avevano sciolto le fila ed erano tornati non senza rimpianti alla vita consueta (ma l’avventura vissuta, e tanto bene raccontata da Beppe Fenoglio, resterà indimenticabile per tutta la loro esistenza), arrivarono dopo poche settimane gli Americani vincitori della guerra, con tutta la potenza della loro organizzazione militare, ma anche con la libertà per noi europei sconosciuta di vestiario, di abitudini, di rifornimenti di ogni tipo.
Per noi ragazzi fu festa per tutto il tempo della loro permanenza, che durò se il ricordo non m’inganna almeno un mese e forse più. Si erano insediati al Campanone, nei locali del nostro oratorio, abbandonato ormai da anni dai ragazzi del paese, essendo stato adibito a caserma dalle diverse truppe che si erano susseguite, oltre alla parentesi cupa in cui era stato invaso dagli “sfollati”, che ne avevano devastato le stanze perché mandavano in frantumi i pavimenti, spaccati dai colpi d’accetta sulla legna con cui, per scaldarsi in quei terribili inverni del ’43 e del ’44, alimentava alla bell’e meglio le loro stufette (il fumo era fatto passare dai buchi ai vetri delle finestre).
Con i soldati americani, che però erano tutti ausiliari di origine brasiliana, molti dei quali neri come il carbone, per noi ragazzi era una festa continua, e soprattutto una continua mangiata, quando avevamo la bocca libera da quella novità assoluta del ciungai, masticato per ore fino ad avere male alle mascelle.
C’era un paio di quei neri che venivano sempre nel Caffè di mio padre perché si erano innamorati della mia sorellina di quattro anni, bionda e bella da farli strabiliare, che durante gli anni di guerra, con tutte le ristrettezze di cibo causate dagli aventi, era cresciuta come una rosa e attirava l’ammirazione di tutti.
In tutto quel giubilo, dato dalla libertà e dall’abbondanza improvviso di cibo, ci fu però la tremenda disgrazia del nostro amico Felice, che aveva qualche anno di più ma che giocava sempre con noi, contento di vivere come il nome che portava. Un ufficiale dell’esercito americano, nel cortile dell’oratorio dov’era insediato, si divertiva a sparare con la pistola alle scatole di latta vuote poste su un rialzo e, a un certo punto, non si sa come, gli era partito un colpo verso il basso e il proiettile aveva centrato nella pancia il povero ragazzo, che cadde dicendo qualcosa prima di morire che nessuno di noi capì.
Elio Gioanola