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Prelati monferrini di Aldo Timossi -73-
                    Seraphinus Tavanus episcopus, da Trino, , vescovo a Reggio Emilia e in Sardegna.
Tra le centinaia di personaggi trinesi - dai santi ai semplici religiosi, dai consoli a medici e artigiani - citati nelle settecentesche “Rerum patriae” di Andrea Irico, troviamo nella seconda metà del ‘300 un Seraphinus Tavanus episcopus. Di lui si limita a scrivere che Papa Urbano VI lo nominò vescovo a Reggio, trasferendolo poi nella diocesi sarda di santa Giusta. Aggiunge che “ornavit patriam”, rese illustre la patria, la città natale. In realtà, consultando varie fonti sulla storia della Chiesa, di “ornare” c’è poco!
Intanto c’è qualche incertezza sulla stessa situazione anagrafica. Fonte che consulti, cognome differente che trovi. La cronotassi dei vescovi reggiani e l’enciclopedica Catholic Hierarchy riportano un Serafino Tavacci da Trino (Tavaccius de Trio, secondo gli ufficiali “Annales Minorum: seu Trium Ordinum a S. Francisco institutorum”), che diventa Travagio in quella di santa Giusta; poi si trovano Tavani, Tovaccio, Taravacci, Taravaggio, Favacci, persino un Ianacci. Una cronaca fonte lo dice addirittura originario di Trento! Si tratta sempre dello stesso personaggio, divenuto vescovo.
Un poco confidando nella precisione storica di quanto scritto dall’Irico, un poco perché Tavano è in realtà cognome antico a Trino (un omonimo Serafino fu molto legato ai Marchesi monferrini fin dal ‘200), vediamo la vicenda di questo frate dei Minori di san Francesco, considerandolo cittadino trinese.
Su anno di nascita nulla di preciso è dato sapere. Siamo comunque intorno al 1330/40. La vocazione lo porta ad entrare in convento, probabilmente a Vercelli, dove i Francescani sono presenti da un secolo, mentre a Trino risulteranno attestati solo da metà ‘500. Sul finire del 1379 arriva per fra Serafino la nomina a vescovo di Reggio, succedendo al defunto Lorenzo II. Fin dall’inizio si fa riconoscere come personaggio tosto e deciso. Scrive Giuseppe Cappelletti nelle “Chiese d’Italia”, peraltro chiamandolo ora Taviano e ora Tavaccio: “Fece il suo solenne ingresso in Reggio il di primo del gennaro 1380, seduto su di un cavallo bianco, il quale fu dipoi soggetto di contesa coi canonici, per lo diritto che vantavano su di esso”. Al titolo di monsignore aggiunge - novità che fa scalpore - quello civile di principe; si fa forte di un diploma imperiale di Enrico VII di Lussemburgo, che ad inizio secolo aveva definito l’allora vescovo di Reggio come “dilectus princeps noster”; ancor prima, intorno all’anno Mille, di un diritto al titolo derivante dall’essere stato nominato “missus imperiale permanente” il vescovo Teuzone.
Sugli anni di episcopato reggiano, le sole notizie pur sintetiche ci arrivano dal volume 18 dei “Rerum italicarum scriptores” (1731) di Lodovico Muratori, che pubblica con il titolo di “Chronicon Regiense” lo scritto di un frate benedettino coevo di Tavano, tal Pietro Muti della Gazzata. Intanto “non si sa bene quali siano i genitori, pare che dalla nascita sia stato per otto anni in orfanotrofio, peraltro comportandosi male”. E la carriera, con cambi di abito a proprio piacere: semplice frate francescano, poi “fratello albo” cioè cisterciense (i monaci bianchi), quindi monaco senza attribuirsi a uno specifico ordine, infine canonico regolare. La musica non cambia, anzi si fa meno gradevole, nel descrivere atteggiamenti e abitudini del prelato. Il Muratori, sempre basandosi sul Muti, non usa mezzi termini: “frequenta luoghi indecorosi” dove ci sono donne indecorose, lo si può trovare nelle bettole mentre gioca ai dadi, ha difficoltà a leggere, “mai o raramente dice la verità”. E conclude: “non ricordo di aver mai conosciuto un uomo così corrotto in ogni vizio”.
Una “brutta dipintura”, una “triste pagina” della cattedra di Reggio. Forse un tantino esagerata? In realtà, il Gazzata è definito come persona “con molti meriti e vari pregi”. Terzo cronista di una famiglia aristocratica, nel 1348, a soli 13 anni è stato ricevuto nel monastero di San Prospero di Reggio dallo zio abate. “Dotato di bella mente e ornato di ottimi costumi, fu promosso a varie cariche”; trovandosi ad Avignone durante la presenza di Papa Urbano V, si è fatto apprezzare per zelo religioso e onestà di vita e costumi, tanto che nel 1363 il Pontefice lo ha nominato abate di quello stesso monastero. In tale carica, ha curato con particolare venerazione la sorte delle reliquie di san Prospero, facendole solennemente trasportare dal diroccato monastero periferico a quello eretto in città presso la chiesa di San Matteo. Le reliquie sono poi state fatte trasferire in cattedrale dal vescovo Lorenzo Pinotti. L’abate sperava che il successore Tavano esaudisse l’appello per una restituzione al monastero, ma così non è stato, e dunque l’abate Muti è in qualche modo il megafono dell’astio verso la cattedra vescovile. Anche oggi la contesa urna del santo è sistemata sotto l’altar maggiore nel duomo reggiano, dedicato a Santa Maria Assunta.
A conferma della buona base per le critiche, anche un’altra voce usa parole di fuoco nei confronti del vescovo. Scrivendo nel 1733 le “Memorie istoriche del monastero di S. Prospero”, Camillo Affarosi definisce monsignor Serafino come “di costumi sì pravi, che simile disgrazia non avea sofferto da gran tempo la nostra Chiesa di Reggio; le discordie che seminava fra gl'ecclesiastici, il scialaquo de' beni del Vescovato, le rubberie che fece sulle sostanze del Clero, i scandali, le disonestà, e tant'altre pessime sue doti abbastanza il fanno conoscere per indegno di tal carattere, e capace di qualunque Impresa più ingiusta”.
A supporto di tali giudizi, alcuni episodi poco edificanti che si ritrovano nelle cronache dell’epoca, dalle quali par di capire che addirittura avesse nella propria abitazione “alcune donne” e dei figli. Una delle ultime malefatte riguarderebbe l’aver picchiato a sangue e derubato di trecento fiorini alcuni chierici, mentre cantavano messa nella chiesa di San Giacomo Maggiore; Beatrice Regina della Scala, amministratrice di Reggio su delega del marito Bernabò Visconti, “lo rimproverò fortemente e blasfemamente, e volle e ottenne la restituzione delle monete”.
Tali e tante vicende arrivano all’orecchio del Papa Urbano VI, che tra gli altri guai deve anche fronteggiare un concorrente, l’antipapa Clemente VII, eletto nel 1378 ad Anagni dai cardinali dissidenti. Il Pontefice nell’estate del 1387, anche su pressante richiesta del conte Gian Galeazzo Visconti, incarica proprio l’abate Muti di un’inchiesta sul comportamento del vescovo. Le accuse risultano fondate, e il Pontefice sottoscrive la bolla (nella quale “non ci da un’idea molto vantaggiosa di questo vescovo”) per il trasferimento di monsignor Tavano alla diocesi di Santa Giusta, Sardegna centrale, nella cui cronotassi è curiosamente chiamato Travagio da Trio.
Nel ritiro da Reggio, da un’ultima prova della propria “irrequietezza”, portandosi via i beni del Vescovado, persino le stoviglie; “per questo, per ordine del Camerlengo del Papa, viene tenuto sotto custodia per diversi giorni”! La morte lo coglie nel 1839.
aldo timossi - 73 continua
FOTO. Basilica Santa Giusta (seconda sede del vescovo Tavano)
                
                                
                                
                                
                                
                                





