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Prelati monferrini di Aldo Timossi -43
Pietro Giocondo Salvaj, vescovo di Alessandria nel periodo 1873-1897 nato a Casale il 27 aprile 1815
Classico esempio di cursus honorum, quello di Pietro Giocondo Salvaj, vescovo di Alessandria nel periodo 1873-1897. Nasce a Casale il 27 aprile 1815, da famiglia originaria di Govone, nell’albese; in qualche documento (anche semiufficiale come “catholic-hierarchy” e “Milano sacro” del 1887) il “di Govone” è tutt’uno con il nome, quasi a indicare famiglia nobile. In realtà quell’antica signoria è appannaggio dei Solero, arduo immaginare per Giocondo un’origine aulica, pur se quando raggiungerà le alte cariche, e grazie alla dignità di prelato domestico del Papa e assistente al soglio pontificio, avrà come d’uso il titolo di conte.
Frequenta il seminario ad Alba, dove il 23 dicembre 1837 è ordinato presbitero. Proseguendo negli studi universitari, consegue il dottorato in sacra teologia e diritto civile ed ecclesiastico. Negli anni successivi ottiene gli incarichi di rettore del seminario e prefetto del Regio collegio d’Alba. Curiosamente troviamo il suo nome, indicato già come “canonico”, nell’annuario elettorale per la Camera dei Deputati del 1854. E’ candidato nel collegio uninominale di Canale d’Alba alle suppletive del 22 gennaio e ottiene 85 voti su 261 votanti, quindi ampiamente surclassato dall’avversario Ruggiero Gabaleone conte di Salmour, in seguito nominato segretario generale del Ministero delle Finanze.
Salendo i gradini gerarchici, Giocondo Salvaj è abate dei Santi Pietro e Dalmazzo, nell’omonimo paese, quindi componente del Capitolo della cattedrale di Alba, all’interno del quale raggiunge la carica di vertice quale arcidiacono. Posizione di prestigio, anche perché collegata a quella di abate di San Gaudenzio. L’abbazia, fondata dai Benedettini neri in epoca ignota, passata ai Cisterciensi, ad un certo punto affidata dal Papa ad un abate secolare, che in tal modo “s’impinguava di ricche entrate”. Considerato che viceversa i canonici della cattedrale “erano quasi sprovveduti della necessaria sussistenza”, il patrono re Carlo Emanuele III aveva ottenuto dalla Santa sede l’unione in perpetuo al Capitolo, destinatario quindi della ricca congrua che in quota significativa finiva all’arcidiacono, e il resto ripartito fra gli altri canonici.
Ma non è solo un problema di finanze. Per monsignor Salvaj si apre anche una lungo percorso di avvicinamento alla dignità vescovile. In qualità di arcidiacono, gli spetta l’onere di vicario generale della diocesi albese. Il Risorgimento aveva portato allo scontro tra Chiesa e Stato, con lunghe vacanze di molte diocesi, e tra queste anche Alba, sede vacante dal 1853, alla morte del titolare Costanzo Michele Fea. Reggerà il vicariato della “vedova diocesi” per ben 14 anni, segnati ad ogni inizio quaresima da una lunga lettera pastorale “al venerabile clero ed amatissimo popolo, in spirito di sincera penitenza”. Fino al maggio 1867, con l’arrivo del nuovo vescovo Eugenio Roberto Galletti.
Il 23 dicembre 1872 arriva per Salvaj la promozione. Papa Pio IX (oggi santo) gli affida la diocesi di “Alessandria della Paglia”. Viene consacrato il 2 marzo successivo, nella cattedrale albese, dal vescovo Galletti, coadiuvato dai vescovi di Ivrea, Luigi Moreno, e di Cuneo, Andrea Formica. Prende possesso della diocesi il 22 marzo. Una cronaca del tempo scrive che “il suo ingresso fu un momento di distensione nei rapporti tra Chiesa ed autorità civili della città, tesi per gli sviluppi della questione romana (nel settembre 1870 la presa di Roma, il papa “prigioniero”) e per il diniego, opposto dal Comune, a celebrare” in modo solenne le esequie del suo predecessore Giacomo Antonio Colli, morto 1 novembre 1872.
La nomina è accolta con “grandissima soddisfazione”, così si legge in una lettera del cardinale alessandrino Luigi Maria Billio, che aggiunge: “Quanto a me, la conoscenza personale che mi fu dato di farne, mi ha via più confermato nell’alta opinione che già avevo per pubblica fama delle rare e bellissime doti che lo adornano e le quali varranno, spero, a conciliargli presso i suoi diocesani quella stima e venerazione, che principalmente al dì d’oggi è tanto necessaria ad un Vescovo per far del bene”.
Nella sua prima lettera pastorale ai fedeli della diocesi, ricorda loro i comportamenti del buon cristiano e definisce i principi ispiratori del proprio vescovato, sottolineando la necessità del camminare insieme: "...nè Noi, nè Voi potremo da soli concepire, non che altro, anche solo un buon pensiero che valga pel conseguimento dei santi fini ai quali miriamo, anzi pure che ci abiliti a mettere in effetto con risolutezza e costanza i propositi concepiti...".
Primo impegno, quello di ridare agli Alessandrini lo loro cattedrale dei Santi Pietro e Marco, nel 1797 confiscata dagli occupanti francesi e trasformata in loro quartier generale, riaperta al culto nel dicembre 1810. Il tempio è oggetto di ampio restauro tra il 1874 ed il 1879, su progetto di Emilio Arboreo Mella.
Un cenno particolare merita la grande cupola. Trattandosi di ricordare la battaglia di Legnano (29 maggio 1176) che aveva visto le 24 città della Lega lombarda sconfiggere il Barbarossa, c’è l’ipotesi di innalzare un “monumento a Legnano o a Pontida”. Con grande acume monsignor Salvaj si mette in moto, aderisce alla proposta ma suggerisce che quel ricordo si faccia ad Alessandria, come contributo al restauro della cattedrale. Così accade, con le risorse raccolte tra i comuni dell’antica Lega s’innalza la grande cupola ottagonale, opera di Arborio Mella, con 24 nicchie che ospitano altrettante statue dei santi protettori delle città alleate, con i relativi stemmi cittadini.
La prima visita pastorale (“ad visitandas parochias”) inizia nel 1877, preceduta da una lettera con la quale il vescovo assicura di “allietarsi nel Signore del bene che troveremo, correggendo ove ne sia il caso ciò che avrà bisogno di emenda, sicuri che come le lodi così tornerannovi cari e fruttuosi gli ammonimenti”.
Attento ai problemi del nascente movimento sociale cattolico, nel gennaio 1879 fonda il settimanale diocesano “Verità e Fede”, che nel corso dei decenni successivi cambierà più volte il nome, fino all’attuale “La voce alessandrina”.
Avendo superato senza grossi problemi la soglia degli ottant’anni, tranne una “lunga infermità colla quale è piaciuto al Signore di visitarmi” nel 1889/90, monsignor Salvaj sale al Cielo alla due di notte del 1° marzo 1897. Viene dapprima tumulato nella cripta dei vescovi presso il cimitero di Alessandria, quindi traslato verso la fine degli anni Ottanta del ‘900 nella cappella di San Giuseppe della cattedrale, destinata a sepolcreto dei vescovi, restaurata nel 2011/12 e inaugurata dal cardinale Giuseppe Versaldi in occasione del suo congedo dalla diocesi.
aldo timossi
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Ultimo pubblicato (martedì 14 gennaio) il salesiano Luigi Lasagna, originario di Montemagno
FOTO. La grande cupola del Duomo eretta durante il suo episcopato per ricordare la battaglia di Legnano






