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Coaloa a Procida per Vidua

Martedì 29 e mercoledì 30

A Procida (L’isola di Arturo di Elsa Morante, quella di Graziella per Alphonse de Lamartine), cala il sipario sull’estate con la Summer Scholl dedicata al «Mediterraneo dei romantici», dove sarà protagonista lo storico casalese Roberto Coaloa con una passeggiata letteraria, martedì 29 settembre, alle 18.00, e una lezione sui romantici Lord Byron, Santorre di Santa Rosa e Carlo Vidua, mercoledì 30 settembre, alle 10.00.

Il tema scelto per il ciclo di incontri di alta formazione universitaria organizzato da Luigi Mascilli Migliorini terminerà venerdì 2 ottobre.

Nel 2020, la Summer School «L’Impresa Culturale nel Mediterraneo» festeggia il suo quindicesimo compleanno. Organizzato dall’Università di Napoli «L’Orientale» e dall’associazione Aiòn, quest’edizione dell’evento ha anche il patrocinio del comune di Procida.

I seminari, trasmessi anche in streaming sui social della scuola, si svolgeranno alla chiesa di Santa Margherita Nuova a Terra Murata dell’isola di Arturo: proprio l’immaginario artistico-letterario legato alla più piccola delle isole del Golfo farà da filo conduttore all’intera settimana. A cominciare dall’amore per la giovane Graziella, raccontato dallo scrittore francese Alphonse de Lamartine, che sarà rievocato da Luigi Mascilli Migliorini nel pomeriggio di mercoledì 30 settembre, con una lezione aperta al pubblico che precederà la proiezione dell’omonima pellicola di Giorgio Bianchi.

Ancora sulle tracce di Lamartine e di Elsa Morante si snoderà la passeggiata letteraria che lo scrittore Roberto Coaloa guiderà lungo le vie dell’isola nel tardo pomeriggio del martedì da Terra Murata alla Corricella: «Da Graziella ad Arturo: flâneries procidane». Si parlerà di passioni ideali e di amori, ma anche di arte e viaggi attraverso il Mediterraneo del XIX secolo: il secolo romantico. Ma non mancherà, come di consueto, uno sguardo sull’attualità. Sul carattere degli italiani, raccontato dagli storici Roberto Bizzocchi e Egidio Ivetic. Ma anche sui temi dell’economia e dell’ambiente mediterranei, con l’economista Massimiliano Ferrara e il corrispondente della Frankfurter Allgemeine Zeitung, Tobias Piller. 

 

Mercoledì 30 settembre, alle ore 10, per la sessione dedicata al tema «Morire per… passione ribelle», Roberto Coaloa presenterà la relazione: Lord Byron, Santorre di Santa Rosa e Carlo Vidua nella rivoluzione greca.

Ne anticipiamo per i nostri lettori un  estratto.

 

Lord Byron, Santorre di Santa Rosa e Carlo Vidua nella rivoluzione greca

 

Duecento anni fa, tre grandi viaggiatori dell’Ottocento, rivoluzionari, romantici e grandi ribelli, per un desiderio di libertà, di indipendenza, di affermazione, morirono lontano dal «carcere natìo»: l’Europa della Restaurazione.

Tutti e tre, in modo diverso, parteciparono attivamente alla rivoluzione della Grecia negli anni Venti dell’Ottocento. Vidua anticipò Lord Byron e Santorre di Santa Rosa: arrivò in Grecia nella primavera del 1821. Gli ultimi due, invece, arrivarono più tardi e vi morirono come due antichi guerrieri: Byron il 19 aprile 1824 a Missolungi, Santa Rosa l’8 maggio 1825 a Navarino.

Dei tre, il meno noto è Carlo Vidua, ma la sua breve esistenza ribelle s’incrocia con quelle di Byron e Santa Rosa non solo in Grecia…

 

Carlo Vidua, Conte di Conzano, nato a Casale Monferrato il 28 febbraio 1785, fu il più grande viaggiatore d’inizio Ottocento: i suoi ultimi dodici anni di vita, dopo un percorso romantico - caratterizzata da un lungo noviziato culturale, accanto a les savants della sua epoca, come il canonico Ignazio De Giovanni, Clemente Damiano, Conte di Priocca e le chevalier Gian Francesco Galeani Napione, Conte di Cocconato - sono interamente dedicati a lunghi viaggi, tra America e Oriente, con tappe, particolarmente interessanti, in Egitto, Messico e India. 

Morì a quarantacinque anni, in Indonesia, il 25 dicembre 1830, a bordo della corvette Ternate del capitano Le Doux. 

La corvette lo stava trasportando da Ternate, dopo uno spericolato viaggio a bordo della goletta imperiale olandese Iris del capitano De Bonyck-Bastiaanse, nel porto di Ambon, dove avrebbe voluto farsi operare alla gamba. La sua morte, infatti, fu cagionata da un’ustione di alcuni mesi prima, il 16 agosto per la precisione, provocata dal fango bollente di un vulcano nell’isola Celebes, oggi Sulawesi, alla gamba destra. Morì all’ingresso della baia di Ambon, alle sei del mattino di Natale. Le sue ultime parole sono state pronunciate in lingua inglese: «I’m dying», poi dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua, esclamò «It’s finished». 

Il giorno dopo, il 26 dicembre, fu seppellito alla presenza dell’amico governatore delle Molucche, Ellinghuyzen, nel cimitero di Ambon. Per due anni Vidua riposò in un suntuoso monumento funebre.

Il 26 settembre 1832 il corpo di Vidua fu dissotterrato. Gli olandesi con tutte le maniere più solenni caricarono la cassa con le spoglie del piemontese sulla goletta Sirius del capitano Deigton, che fu incaricato di trasportare la salma da Ambon a Giava. Il 14 febbraio 1833, il corpo di Vidua fu nuovamente imbarcato a Batavia per ritornare, finalmente, in Europa. Fu trasportato dalla nave Hélène-Christine del capitano Martens. Arrivò in Olanda il 2 luglio, e da lì ripartì subito per l’Italia, dove il viaggiatore trovò la definitiva sepoltura nella Chiesa di San Maurizio di Conzano.

Una vita avventurosa, ricca di emozioni e di pericoli. Lo studioso dei viaggi del Conte Vidua divide la narrazione in tre grandi tour. Il primo, dal 1818 al 1821, tra Francia, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Russia, Impero Ottomano, Egitto e Grecia. Il secondo, dal 1825 al 1826, tra Canada, Stati Uniti d’America e Messico. L’ultimo, dal 1827 al 1830, tra India, Cina, Manila, Filippine, Indonesia e Nuova Guinea. 

Il primo grande tour, comprende anche una quarantena che il viaggiatore dovette imporre a se stesso alla fine del 1821. 

Dopo Cipro e Rodi, Vidua sbarca ad Atene, mentre la città è in preda alla rivoluzione. Il viaggiatore si propone di studiare i costumi e le istituzioni degli abitanti. È l’anno 1821, in Piemonte si stanno svolgendo i moti (dove sono coinvolti gli amici del viaggiatore, da Santorre di Santa Rosa a Cesare Balbo). Vidua, non si trova lì per caso, come potrebbero far pensare le lettere pubblicate (e censurate pesantemente nel Regno di Sardegna alla loro uscita) da Balbo nel 1834. Il suo interesse per la politica lo spinge in Grecia prima di Byron e dell’amico Santa Rosa (che quando arrivò ad Atene, nel gennaio 1825, ritrovando su una colonna del tempio di Teseo il nome di Vidua, vi scrisse accanto il proprio).

 

Partito da Smirne il 17 luglio 1821, Carlo Vidua per ritornare nel Regno di Sardegna dovette trascorrere «68 giorni di carcere sul bastimento» e due mesi nel lazzaretto di Marsiglia per un’epidemia di febbre gialla.

Prima di arrivare a Marsiglia, il 12 agosto 1821, dalla rada di Tunisi, dove si trova a bordo del bastimento francese l’Enfant Cheri, Vidua scrisse al padre della peste scoppiata a Smirne, che colpì non i turchi, ma i viaggiatori europei. 

Molti viaggiatori, all’epoca di Vidua, morivano di peste o di tifo al ritorno dall’Africa o dalle terre dell’Impero Ottomano, come la Soría, nome, oggi, assai obsoleto per indicare la Siria, ma ancora in uso nell’Ottocento. Lo stesso Vidua, prima di arrivare a Smirne e imbarcarsi per l’Europa, si fermò a Beirut. I venti contrari lo ritardavano di parecchi giorni prima di poter far vela per Cipro. Inoltre durante il viaggio si era ammalato di una febbre terzana che portò fino sull’isola, a Larnaca, e che curò con efficacia attraverso la dieta e bevendo acqua di mare.

 

Prima di arrivare a Marsiglia, per affrontare il confinamento, cagionato dalla «patente sporca» essendo partito da Smirne in tempo di peste, Vidua fece un viaggio lunghissimo con l’Enfant Cheri, nave guidata dal «capitano il più rustico di tutta la Provenza». 

La navigazione «non pericolosa, ma noiosa e contrariata», da Smirne a Marsiglia, ebbe cinque relâches, cioè interruzioni, con gli scali a Tunisi, Livorno, Agay, Hières e Bandol.

La compagnia sulla nave era veramente alla buona: «ho per compagnia una famiglia semi-Francese e semi-Levantina composta di otto donne, cioè: una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro».

I problemi nel ritorno dal primo grande Tour furono innumerevoli, ma non così esiziali al confronto dei pericoli mortali che Vidua incontrò all’inizio di quell’anno: la guerra tra greci e turchi, la strage di greci a Smirne. Tutti avvenimenti atroci che erano impossibili da immaginare in Europa.

 

Tra la navigazione con l’Enfant Cheri e il confinamento nel lazzaretto di Marsiglia, Vidua trascorse un penoso e lungo periodo di quattro mesi, che il viaggiatore prese, infine, con filosofia e understatement britannico. Arrivato a Marsiglia, il 26 settembre, scrisse alla «Contessa Vidua» (la matrigna, Enrichetta Galleani d’Agliano, seconda moglie del padre, il ministro del Regno di Sardegna, Pio Vidua): «questa mia prigionia per le attuali circostanze potrebbe benissimo esser allungata, giacché questo lazzaretto è famoso per moltiplicare e precauzioni, e per l’eccessiva ed irremissibile, ma però utile, sua severità».

La quarantena a Marsiglia, dopo tre anni e mezzo di viaggio, sembrò al Conte di Conzano un’occasione utile per riposare e mettere ordine ai suoi appunti. Dal lazzaretto, l’11 ottobre 1821, scrisse alla «Contessa Vidua»: «La sola cosa ch’io tema si è, che mi sia allungata la quarantena, ciò che è possibilissimo. Però mi si è fatto sperare di no. Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese ex-ufficiale ed or negoziante chiamato M. Mercié che venne da Smirne sul mio medesimo bastimento. Egli è molto civile e cortese, e non di questi ufficiali sabreurs, o nati contadini, ma di tratto dolce, ed è nato di una buona famiglia bourgeoise. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore, essendo venuti sul medesimo bastimento. Esse ora sono divenute assai più ragionevoli, ossia non c’è più quella convivenza, che è sempre lo scoglio grande, dove va a perdersi l’amicizia e l’affezione, e però che mi fa tanta paura pel matrimonio. – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte. – Dentro il lazzaretto vi è un buon restaurateur. Abbiamo una guardia, che è un giovine disinvolto, e ci serve da domestico. – Insomma le assicuro che se non fosse del desiderio di rivederli, avrei bisogno almeno di sei mesi di quarantena per mettere in ordine le infinite informi memorie dei miei viaggi». 

 

Le lettere che Vidua indirizza ai familiari, come il padre e la matrigna, hanno un tono leggero, piacevole, nonostante il sempre presente pericolo di morte. Questa è una caratteristica del viaggiatore, che preferisce non allarmare i suoi interlocutori. Scherza, ad esempio, sulla sua “conversione” all’Islam, raccontando di essersi fatto crescere i baffi alla turca e firmandosi «Hagì Carlo». Perché «Hagì in Arabo vuol dire pellegrino, o l’aver fatto il pellegrinaggio. È tenuto in tanta stima dagli Orientali, che tutti i Maomettani, che sono stati alla Mecca, e tutti i Cristiani Greci, Armeni, o d’altro rito che furono a Gerusalemme, portano per tutta la loro vita questo titolo; essi lo mettono anche ne’ contratti ed altri istromenti notarili, e nessuno proferisce il loro nome senza premettervi questo titolo – e non s’omette mai, nemmeno nella più famigliare conversazione».

Ai suoi corrispondenti Vidua esprime alcuni desideri. Il primo riguarda le sue collezioni e chiede, ad esempio, «se sia giunta una cassa da Pietroburgo, e quattro da Alessandria d’Egitto, oltre a tre oggetti che avea lasciato a M. Chirico a Costantinopoli, cioè una cassetta pastiglie serraglio, due carte, ed 80 disegni di figure Turche». Il secondo desiderio è quello di «sapere morti e matrimoni, nuove domestiche e pubbliche, e di Casale, e di Torino; promozioni, novità d’ogni specie. Penso che tutto riesce curioso per un Arabo, che manca da tre anni e mezzo, e che soprattutto da un anno e mezzo non ha quasi più ricevuto alcuna nuova, onde le nuove vecchissime per loro restano nuove nuove per lui».

L’aspetto curioso di «una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte» di Carlo Vidua al lazzaretto di Marsiglia è la presenza di un cembalo, che il viaggiatore aveva prontamente affittato al suo arrivo in Francia.

La musica composta da Vidua a Marsiglia, oggi si trova conservata presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato. Il manoscritto reca sul frontespizio con la consueta elegante grafia del viaggiatore: «Lazzaretto di Marsiglia, ottobre 1821». Lo spartito musicale si presenta come una raccolta di vari frammenti: «maestoso o tempo di marcia»; due «vals» e una «contradanza», chiaramente in prima stesura, con appunti e correzioni, che rivelano una bella disinvoltura nella notazione musicale; è unita a questi brani, su foglio a parte, con introduzione ed accompagnamento di chitarra, in veste compiuta, una canzone in versi francesi dedicati ad Epicuro, un esempio notevole di insouciance giovanile, inneggiante agli amori fugaci, i soli capaci di rallegrare la vita, in barba a tutta la saggezza antica, che pure anch’essa spesso se ne era lasciata travolgere.

 

Immaginiamo Vidua tra le otto donne della quarantena al lazzaretto di Marsiglia, le più giovani delle quali andavano vagheggiando, in chiave di soprano, i piaceri dell’«aimable folie» di «effleurer tous les coeurs», teorizzati e probabilmente anche messi in pratica dall’autore cui, dopo tre anni e mezzo di viaggio, si profilava nuovamente, alla vigilia del suo rientro in Piemonte, come uno spauracchio, l’ombra incombente del matrimonio, tanto auspicato dalla famiglia per quel figlio unico che doveva perpetuare la lignée, e gli faceva assaporare maggiormente tutta la dolcezza di una vita senza legami, volta a raggiungere il suo intento di libera ricerca di quanto potesse appagare appieno il suo istinto di viaggiatore assetato di una conoscenza titanica.

La musica fu un aspetto assai rilevante della personalità di Carlo Vidua. Su questo tema, la mia cara amica Nicolette Pinna Pintor Turin (Torino il 14 novembre 1921 - Torino il 28 febbraio 2015) ha dedicato alcune pagine, scoprendo con il sottoscritto gli spartiti musicali del viaggiatore, che abbiamo eseguito in più di un’occasione a partire dal 1986. Lei al pianoforte e chi scrive al violino. Poi, in altre occasioni, nel 1996 a Conzano e, tra il 1997 e il 1999, a Torino e a Casale Monferrato. Nel 1996 per l’apertura al pubblico di Villa Vidua. In quell’occasione suonai un’aria, in chiave di violino, che figura in un fascicolo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato di «Quattro monferrine», di cui una firmata appunto da Vidua. Nel 1997, Nicolette presentò una nuova relazione (non pubblicata) su Vidua e la musica, per il Congresso e la Mostra su «Carlo Vidua viaggiatore europeo tra America e Oriente» (curati da chi scrive), alla Biblioteca Nazionale di Torino e, sabato 8 novembre 1997, presso la Congregazione dei Banchieri, Negozianti e Mercanti, il gruppo cameristico «Ars Nova», composto da Patrizia Barberis (pianoforte), Paola Brancato (contrabbasso), Marco Pasquino (violoncello) e Antonio Sacco (violino), eseguì le musiche del Conte di Conzano (rimaneggiate per il quartetto da Patrizia Barberis). Nel 1999, chi scrive indagò sui rapporti esistenti tra il viaggiatore e il musicista di Casale Monferrato, il grande compositore Carlo Evasio Soliva.

Vidua ebbe un’educazione musicale tra le migliori della sua epoca. Amò Rossini, suonava il violino e l’organo. Al pianoforte era un talento e spesso nei suoi viaggi portò con sé il cembalo, come per il lungo tragitto tra Bordeaux e l’India. Partito il 10 luglio 1827 dal porto francese, arrivò a Calcutta il 17 novembre.

Delle composizioni di Vidua in viaggio, però, rimangono solo quelle dell’«Hagì Carlo», che reduce dal lungo viaggio e dalla quarantena nel lazzaretto di Marsiglia avrebbe voluto mantenere i baffi alla turca. Nel Piemonte reazionario, però, dopo i falliti moti del 1821, il nuovo Re Carlo Felice (il cui governo per Massimo d’Azeglio era «un dispotismo pieno di rette ed oneste intenzioni ma del quale erano rappresentanti ed arbitri quattro vecchi ciambellani, quattro vecchie dame d’onore con un formicaio di frati, preti, monache, gesuiti») se la prende anche con i baffi. 

Il 23 marzo 1822, a Nizza, territorio sabaudo, Carlo Vidua scrive scoraggiato alla sorella, la Contessa Luisa Incisa di Santo Stefano: «Vedrai i miei vestiari Turchi che hanno piaciuto a chi li ha veduti qui. Avevo conservato i baffi perché fanno parte per dir così del costume Turco, e la mia idea era poi di tagliarmi due o tre giorni dopo, che fossi arrivato a Torino, e che mi aveste veduto vestito da Turco. Ma appena qui giunto mi dissero che v’era una legge apposta contro i baffi, e che passando per le contrade si potrebbe essere insultato da’ carabinieri, onde li ho dovuti tagliare subito. – In Turchia ed in Francia gli avevo portati liberamente per due anni».

Arrivato in Monferrato, il viaggiatore invia da San Maurizio di Conzano, il 28 maggio 1822, una spiritosissima lettera alla Marchesa Romagnano: «Ieri ebbi un momento che veramente mi fece piacere; andai a Conzano (distante di qua due miglia), e vi ricevei le più calde dimostrazioni di affetto da que’ buoni abitanti, che sono veramente affezionati a me ed alla mia famiglia. Mi facevano delle congratulazioni con tanta semplicità, chi mi baciava la mano, chi mi abbracciava, chi piangeva, e un vecchio dopo avermi fatto tante belle espressioni, finì per dire, che se Nostro Signore voleva prenderlo, ora moriva contento dopo avermi veduto ritornare salvo. Era appunto il nunc dimittis. – In chiesa poi a vespro ed a benedizione, nessuna donna pregò, stavano tutte a mirare il Turco, come se fosse un morto risuscitato. Credo s’erano messo in testa, che non mi sarei più salvato da que’ paesi barbari e lontani, onde mi guardavano appunto come un morto risuscitato, come Lazzaro».

 

Lo studio della storia è un’esperienza unica, perché ogni avvenimento dal più piccolo al più grande, è originale e non si ripeterà mai. Anche indossando la veste vichiana, indugiando sulla filosofia della storia, cedendo volentieri alle tentazioni dei ricorsi storici, dobbiamo constatare che la storia ci offre dei consigli, ma raramente ci consente d’indovinare il futuro. Si può anche essere profetici su un dato fenomeno, e, forse, l’utilità di scrivere la storia è di comprendere il presente: utile per aprire la mente, togliere i nostri pregiudizi e sperare che il viaggio in acque inesplorate sia favorevole. La storia non si ripete e sta a noi, seppure con deboli armi, contrastare o favorire il destino della nostra più piccola storia individuale.

A Carlo Vidua, che sognava la gloria, come scrittore e viaggiatore, il fato fu avverso. La sventura si abbatté su di lui: l’incidente alla gamba compromise definitivamente la sua salute e fece di lui quasi l’emblema della virtù infelice.

Gloria, virtù: queste parole racchiudono al di là del loro contenuto specifico, un secondo valore semantico, più vago perché più assoluto e costellano la vita del piemontese come sinonimi di slancio, di entusiasmo, di fervore, di fede, di grandezza e altezza d’animo.

Puntando sulla virtù e sulla gloria, su grandezza e coraggio, Vidua si sottrae agli schemi del pensiero settecentesco e anche a quelli romantici e ripropone, senza enfasi e senza retorica, l’integrale pienezza dei valori umanistici.

 

Vidua è un ribelle e la sua vita è uno spettacolo senza precedenti. Byron, letto e conosciuto assai bene dagli amici piemontesi, si pone al centro delle sue narrazioni in veste di personaggio titanico (Manfred), in continua lotta contro le avversità del fato. Santorre di Santa Rosa, che partecipò ai moti piemontesi del 1821, fu chiamato a dirigere il ministero della Guerra nel governo costituzionale piemontese e ne fu di fatto il capo. Costretto all’esilio per sfuggire al capestro, si arruolò volontario e morì combattendo in Grecia contro i turchi nel 1825, un anno dopo l’avventura di Byron, che il 1° gennaio 1824 con una sua nave sfuggiva alla cattura della flotta turca, per morire malatissimo, per una infiammazione ai polmoni, alla vigilia del prestito inglese alla Grecia e alla sua prossima nomina a presidente della commissione per la destinazione dei fondi. Il poeta ribelle morì alle sei di sera del 19 aprile 1824. Era il Lunedì dell’Angelo. Nell’ora della sua morte si scatenò un uragano impressionante.

Roberto Coaloa

FOTO. Gli storici Migliorini e Coaloa