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Quando la nonna non aveva la luce

di Elio Gioanola -

Era il secondo dopoguerra  e la nonna, con lo zio Salvino e la sua famiglia, non aveva ancora la luce elettrica, come altri in paese, per non parlare delle cascine sparse nelle frazioni o peggio ancora solitarie in mezzo alla campagna. L’illuminazione pubblica si riduceva ai rari lampioni per le strade principali, dove  lampadine da pochi Watt mandavano fiochi barlumi in un breve cerchio, quando non errano fatte fuori dalle pietre dei monelli. Sempre meglio comunque del buio totale negli ultimi tempi del conflitto, quando l’oscurità era totale e nelle sere di nebbia c’era da perdersi e, se qualche incauto lasciava per caso filtrare da una finestra un filo di luce, veniva redarguito da qualche zelante squadrista in giro a tutela dell’ordine.

Ricordo bene, e sarebbe strano se non lo ricordassi, perché mandò il suo scarso lume fino a quando rimasi nella casa paterna, la vecchia, vecchissima lampadina che stava da tempo immemorabile nel corridoio della cantina, a forma di pera, con una serie di filamenti in andata e ritorno che l’attraversavano in moltissime volute, tanto numerose quanto incapaci di proiettare una decente illuminazione.

Ho sperato per anni che si fulminasse, ma alla fine mi ero affezionato a quel residuo arcaico, certo risalente ai primordi dell’introduzione dell’elettricità, e non so dire fino a quando fu in grado di funzionare, anche se forse era destinata all’immortalità.

Quando la nonna morì non ricordo se a casa sua fosse finalmente arrivata l’illuminazione moderna, ma ricordo invece benissimo il passaggio dal lumino a olio all’acetilene, perché mandava un bel chiarore bianco e diffuso, ma anche perché il carburo era l’ingrediente da cui noi ragazzi eravamo attratti per far saltare in aria i barattoli di latta, che seppellivamo sotto terra, con un buco in cima per dare fuoco al gas che si formava. Non è possibile dimenticare l’esperimento ideato dal Cele, principe dei monelli, con un secchiello come contenitore della miscela esplosiva del carburo, accumulato in quantità sufficiente per farlo saltare fino in cima alla torre civica, alta ventotto metri. Ci eravamo radunati in gran numero per assistere all’evento, ma quando l’audace fautore dell’impresa accese il fiammifero e lo accostò al buco del vecchio secchiello che fungeva da detonatore, si sentì uno scoppio e una fiammata enorme illuminò la sera incipiente, mentre il Cele gettato a terra mandava un urlo disperato, pieno di fango fino agli occhi e gridava: “Non vedo più, non vedo più”. I suoi compagni dell’impresa, invece di pensare a qualche aiuto, si diedero a fuggire in mezzo alle vigne della collina e sul posto rimasero i monelli piccoli, che erano rimasti indenni solo con qualche schizzo addosso, i quali corsero vicino all’eroe atterrato e poterono ascoltare le prime  parole sensate del loro eroe, che nel frattempo si era levato a sedere e pulitosi gli occhi col fazzoletto, disse che vedeva poco ma dopo un po’ esclamò che non doveva dare da mente al Cidare, che aveva inventato quella cosa e poi aveva mandato lui a realizzarla perché diceva di avere il coraggio che il socio non aveva. In ogni caso, sbrattata le faccia si era calmato perché gli era tornata la vista e solo pantaloni e camicia non erano più da vedere, per la terra e i residui di carburo che li avevano completamente riempiti. Un’altra follia, molto più piccola, l’avevo combinata io in persona, ma allora  ero più piccolo perché dopo gli otto o nove anni certe cose non si fanno più.

Quella volta avevo sentito dire da qualche cliente del Caffè paterno di un’invenzione fatta con l’elettricità, che faceva volare senza motore, e allora io pensai che potevo fare la stessa cosa applicando alla presa di corrente una matassa di fil di ferro (proprio così, è un ricordo preciso): andai nella camera posteriore del locale e ne infilai i due capi ai fori della presa medesima, da cui venne una scarica che fortunatamente, anziché attirarmi, mi gettò tra le braccia della nonna che stava dietro di me. Fu per lei la conferma della pericolosità della “luce”, che la persuase a non fare l’allacciamento all’elettricità, aiutata peraltro dal figlio, ugualmente tenace nel rifiutare quella che era ancora considerata una modernità pericolosa: meglio fidarsi dell’acetilene.

Elio Gioanola